Koolhaas di fronte al Classico
di Marco Biraghi
In un saggio pubblicato per la prima volta nel 1965 sulla rivista «Edilizia Moderna», Joseph Rykwert evidenzia come in tutta la tradizione occidentale la posizione seduta sia invariabilmente associata all’autorità.[1] «Un professore è in carica quando è salito in cattedra; la chiesa principale di una diocesi porta il nome di cattedrale perché è il luogo dove il vescovo ha la sua sede o cattedra. Le disposizioni papali, che devono contenere tutto il peso della sua autorità, vengono emanate ex-cathedra, dal suo trono, e il seggio del primo vescovo di Roma, San Pietro, è venerato al centro della crociera della basilica di S. Pietro, nell’enorme reliquiario del Bernini, dove si trova l’altare che è appunto conosciuto come l’altare del seggio».[2]
Ma più in generale, dai faraoni dell’Antico Egitto ai capi tribù dei paesi africani, dagli imperatori del Giappone ai Buddha dell’India e della Cina, lo stare seduti su una sedia, su uno sgabello, su un trono, su un fiore di loto o sul corpo arrotolato di un serpente a nove teste, ha sempre significato assumere un ruolo eminente, che neppure la posizione eretta possiede. A riprova di ciò, nell’iconografia buddhista, ma anche in quella cristiana, un seggio vuoto (o come nel caso della cupola del Battistero degli Ariani a Ravenna, occupato da una croce di gemme) può sostituire la figura del Buddha o quella di Cristo, divenendo esso stesso oggetto di adorazione.
Al di là della sua foggia e del suo valore, la sedia pone a contatto con il terreno, incarnando così l’idea del dominio – spirituale o temporale – esercitato su di esso. Inoltre la sedia, disponendo su un piano rialzato il corpo di colui che la occupa, conferisce a quest’ultimo una “sovranità” – ovvero una superiorità – effettiva, non misurabile cioè in termini di semplice altezza fisica, quanto piuttosto di intrinseca distinzione rispetto a tutte le altre figure che lo circondano, in posizione eretta. Non a caso l’etimologia del termine “trono” lo mette in relazione con le azioni del tenere, del sostenere; mentre l’etimologia di “stallo” allude a uno stare che non ha nulla di transitorio o di puramente fattuale ma che indica piuttosto una fissità, una saldezza essenziale.
All’importanza (o forse – meglio ancora – alla rilevanza) conferita dallo stallo per chiunque vi si sieda, si connette quella del piedistallo per ciò che vi sta appoggiato. Nel saggio apparso sul catalogo della mostra Serial Classic, il cui allestimento nel Podium (!) della Fondazione Prada, a Milano, ha curato egli stesso, Rem Koolhaas mette in evidenza la differenza tra una statua e una scultura per quanto riguarda il posizionamento su un basamento: «Lo zoccolo classico rafforza chiaramente la stasi rappresentata da alcune statue… verticali, colonnari, erette, un braccio alzato, al più, in un gesto vago di saluto o di benedizione. Ma per certe sculture che raffigurano il movimento, il piedistallo classico non è un rinforzo, un’estensione plausibile, bensì un’inibizione. La scultura è inevitabilmente un fotogramma congelato di un momento in movimento – in avanti, di lato o anche all’indietro – ma quel movimento è negato, sabotato, sgonfiato, abortito, e persino contraddetto dal piedistallo. Per molte sculture, la separazione dal terreno attuata dal piedistallo uccide l’energia dell’opera e sovverte o mina il suo significato».[3] Se il piedistallo esalta la verticalità e la staticità della statua, favorendone l’isolamento, nel caso della scultura ha invece l’effetto di frenarne il dinamismo e di impedirne una fruizione libera, a 360°.
Dovendo agire, nell’allestimento della mostra citata, curata da Salvatore Settis e Anna Anguissola, «sul rapporto apparentemente permanente tra scultura e piedistallo stabilito fin dall’antichità», la preoccupazione di Koolhaas è stata dunque quella di dare sia alle statue che alle sculture non soltanto una sistemazione adeguata e un conveniente rilievo ma soprattutto una collocazione confacente alle differenze e alle specificità appena indicate. In tal senso, il dispositivo espositivo messo a punto da Koolhaas consiste in una serie di piedistalli che oltrepassano la “classica” logica del punto di appoggio isolato, per organizzarsi piuttosto come un paesaggio artificiale composto da lastre di metacrilato impilate a formare rilievi di diverse altezze, coperti alla sommità da uno strato di travertino indiano (la classicità materializzata). I piani sfalsati che ne derivano danno luogo a più movimenti ondulatori che attraversano l’intero spazio espositivo; la disposizione delle opere su tali piani determina una pluralità di condizioni diverse, a seconda che si tratti di elementi tendenzialmente statici come i Satiri versanti, presentati in una sequenza frontale visibile anche dall’esterno dello spazio del Podium, o invece dei Discoboli, o dei Corridori del Museo Archeologico di Napoli, attraversati da una spiccata carica dinamica. Ed è proprio qui che la scelta espositiva di “affondare” i piedistalli di queste sculture nelle lastre di travertino mostra la propria efficacia, mettendo “in circolazione” il movimento racchiuso nelle sculture e di conseguenza “umanizzando” queste ultime.
Al rinnovato dispositivo del piedistallo l’allestimento di Serial Classic affianca una seconda modalità espositiva: quella della vetrina. Anche in questo caso Koolhaas fornisce delle ragioni storiche e percettive a supporto delle proprie scelte allestitive: «Come il piedistallo, la vetrina è un dispositivo cui abbiamo consentito di divenire il solo e indiscusso territorio delle specialista – piuttosto che uno strumento dinamico per il museografo. Nella vetrina tolleriamo composizioni assurde, raggruppamenti, conflitti di scala, goffi e fastidiosi sistemi di etichettatura […]. Come il piedistallo, la vetrina privilegia la visione frontale degli oggetti, a dispetto della loro ovvia tridimensionalità. Ma laddove il piedistallo preclude le relazioni tra i singoli oggetti, la vetrina consente l’opposto: impone con disinvoltura la coesistenza tra manufatti privati proprio da essa della loro vitalità».[4]
È a partire da queste considerazioni che Koolhaas ripensa la vetrina come un “ideale” solido di metacrilato, un pezzo di materia trasparente dentro il quale è immerso l’oggetto da esporre, e che assume tanto il ruolo di lente d’ingrandimento quanto di “oggetto” architettonico vero e proprio, dotato di una stereometria e di una spazialità che le vetrine tradizionali, in quanto semplici mobili, soltanto raramente possedevano. Nell’allestimento realizzato, questi blocchi di metacrilato si trasformano in “stanze” dalle pareti trasparenti occupate a volte da un unico ospite (la preziosa Penelope del Museo di Teheran), altre volte da più oggetti (le molteplici teste della stessa figura); mentre in altri casi ancora si riducono a setti verticali altrettanto trasparenti che fungono ora da ricoveri bidimensionali (per i frammenti dell’Aristogitone), ora da semplici sfondi (per il torso dell’Atleta Amelung).
Ciò che ne sortisce è un’ulteriore versione del tipico procedimento progettuale koolhaasiano: dove l’immancabile “gioco” di rimandi tra segno e referente genera – nella fattispecie – una nuova interpretazione, “slittata” rispetto all’originale, ma ad essa perfettamente congruente, del tema del Classico. Di tale gioco di allusioni (che non sono mai semplici citazioni stilistiche o figurative, quanto piuttosto ripetizioni differenti del medesimo tema o elemento), fa parte l’utilizzo di caratteri lapidari romani incisi nelle lastre di travertino per le didascalie delle opere esposte, cui si lega – e si contrappone nello stesso tempo – l’impiego di fotografie sfocate e in negativo accostate alle citazioni antiche relative alle stesse opere: entrambi modi per evocare e infrangere insieme l’aura dell’originale. Lo stesso meccanismo di prossimità e distanza, di immedesimazione e straniamento, d’altronde, messo in atto dal Podium, il contenitore espositivo incertamente oscillante tra la Neue Nationalgalerie di Berlino di Mies van der Rohe e uno showroom di Prada; uno spazio che sembra concepito appositamente per la mostra Serial Classic, dove è in scena la questione della riproducibilità dell’opera d’arte nell’epoca antica, e dunque – nuovamente – il rapporto tra annullamento e sopravvivenza in condizioni differenti dell’aura.
O forse, l’assonanza tra Podium e Serial Classic sta a significare qualcosa d’altro: attesta e comprova che lo stesso atteggiamento di Koolhaas ha qualcosa a che fare con un perenne “slittamento” del segno, che tuttavia mantiene e salvaguarda la “cosa” essenziale; ovvero la mantiene e la salvaguarda offrendo ad essa una seconda possibilità. Non molto diversamente da quando – e da come – l’ancora giovane architetto olandese si proponeva di dare una deuxième chance all’architettura moderna.[5]
[1] Joseph Rykwert, La posizione seduta: un problema di metodo, in «Edilizia Moderna», 86, 1965, pp. 6-13.
[2] Ibidem, p. 9.
[3] Rem Koolhaas, The Socle and the Vitrine, in Serial/Portable Classic. Multiplying Art in Greece and Rome, a cura di Salvatore Settis e Anna Anguissola, Fondazione Prada, Milano 2015, p. 200.
[4] Ibidem, p. 203.
[5] Cfr. Patrice Goulet, La deuxième chance de l’architecture moderne… Entretien avec Rem Koolhaas, in «L’architecture d’aujourd’hui», 1985, n. 238, pp. 2-9.
Pubblicato su Engramma n.129, settembre 2015
28 settembre 2015