TERTIUM | #ciòchemanca

Quanto segue è una delle proposte selezionate nel contesto del concorso “Ciò che manca” indetto da Gizmo lo scorso maggio. Ai partecipanti è stato chiesto di rispondere al quesito “cosa manca nelle nostre città?” attraverso qualunque tipo di forma comunicativa, formulando soprattutto un’idea.

TERTIUM
di Luca Sassi

Ciò di cui abbiamo bisogno, o per lo meno ciò di cui crediamo di aver bisogno, ha le radici piantate nella terra del desiderio, in un luogo che si trova sempre dall’altra parte di un ponte dove nessuno sa come arrivare. Nel tentativo di raggiungere la sponda tanto bramata perdiamo un’enormità di tempo, impieghiamo tutte le nostre energie, diamo fondo alle nostre risorse. Tutti questi tentativi generano e in parte sono essi stessi “ipersoluzioni”, ovvero quelle soluzioni che, pur essendo fondate sulle migliori intenzioni, hanno sempre esiti opposti a quelli desiderati.

Per un effetto paradossale ben noto a chiunque abbia mai fatto i conti la delusione di non riuscire nei propri intenti, il mancato raggiungimento dei nostri obiettivi aumenta il desiderio nei confronti di ciò di cui ci sentiamo privi. In tal modo è alto il rischio di essere sopraffatti dalle peggiori ombre che abitano nell’animo umano che riescono addirittura a mascherare la mancanza in colpevolezza compiendo un autoinganno che ha dell’incredibile.

Per tenere il più lontano possibile il vuoto da cui ci sentiamo assediati mettiamo quindi in atto l’”ipersoluzione” per eccellenza, quella per cui l’irraggiungibile riva dall’altra parte del ponte è stata inventata: compriamo. Così facendo speriamo di colmare un divario che in realtà diviene progressivamente sempre più esteso e spaventoso. In ciò risiede il segreto del bisogno imposto, della mancanza programmata, dell’intelligenza violentata.

Esistono tuttavia casi in cui il senso di mancanza si fa più insistente, mostrandosi nelle sue forme più assolute e in qualche modo più autentiche, sfuggendo ai pericolosi tentacoli della modernità per ritrovarsi con la stessa estenuante frequenza dentro ognuno di noi.

È il caso della mancanza che si tramuta in assenza. C’è una differenza sottile e spesso impercettibile tra ciò che manca e ciò che non c’è, che è assente. Chiunque si rifiuti di cogliere, o per lo meno di tentare di cogliere, questa piccola differenza “usa l’urna come vaso da notte e il vaso da notte come urna”, per dirla con le parole delll’intramontabile Karl Kraus.

L’assenza è una frattura primordiale che segna l’esperienza umana e ha lo stesso rumore di un osso che si spezza. La dilatazione temporale di questo rumore accompagna la storia dell’uomo da molto prima che il capitalismo inghiottisse questa componente inevitabile dell’esistenza per poi risputarla, non prima di averla accuratamente masticata, sotto forma di mancanza. 

La principale differenza tra mancanza e assenza risiede nella possibilità di quantificare la mancanza a fronte di una evidente impossibilità di attribuire un numero, e quindi un prezzo, all’assenza. Quest’ultima infatti può solo essere pesata dando però esisti inaspettati.

Il peso specifico dell’assenza, oscillante dal microgrammo alla tonnellata, ha sempre lo stesso identico impatto sulla bilancia su cui grava: pur essendo sempre diverso in realtà non cambia mai. In ciò risiede la tragedia, la maledizione ma anche la grande umanità dell’assenza.

Le città quindi non andrebbero studiate sotto la lente della mancanza ma sotto quella dell’assenza. Se si avesse l’audacia di avventurarsi in una tale operazione si scoprirebbe che i luoghi in cui viviamo sono impregnati di assenza, molto più di quanto non lo siano di mancanza. Noi cittadini, questa assenza, la respiriamo, ne siamo assuefatti e intossicati allo stesso tempo. Essa ci avvolge e ci stritola, ci rende schiavi di una tecnologia che ha la pretesa di risolvere uno dei problemi più spaventosi con cui l’uomo si sia mai dovuto confrontare: il non esserci, l’assenza, appunto.

Siamo diventati maggiordomi di una tecnica e di una tecnologia che non redime, non salva e non dà emozioni. Il mezzo è diventato un fine ed è per questo che tra le tante possibilità difficilmente si potrà trovare nella tecnologia soluzione all’assenza.

La centralità della questione sembra quindi spostarsi verso altri orizzonti che, con una sufficiente ma mai eccessiva dose di fantasia potrebbero divenire luoghi concreti. Se l’assenza non si gestisce, e meno che mai si supera con la tecnologia, è forse il caso di affrontarla con tutti gli altri strumenti e le altre risorse di cui in passato l’uomo si è avvalso, talvolta registrando notevoli successi.

Primo e certamente più importante tra questi strumenti è la capacità cognitiva di riconoscere che una società, e quindi una città, fondata unicamente sulla divisione in opposti lontani e inconciliabili è per sua stessa natura una fabbrica di luoghi irrisolti. Arrendersi alla tesi manichea che oscilla unicamente tra due entità separate e opposte rende la permanenza dell’attuale condizione di assenza una certezza.

L’idea che il contrario del Male sia unicamente il Bene in qualche modo non funziona.

Sorge quindi il dubbio che, dopo aver abbandonato il concetto di mancanza, sia necessario affrontare l’assenza con una “terza via”, con una possibilità in più che si aggiunga alle uniche due soluzioni opposte che molto spesso restringono la visione sulle cose e limitano le capacità di scelta.

La necessità di tradurre la “terza via” in luoghi, di spazializzare e concretizzare ciò che rischia di rimanere imprigionato nel mondo delle idee è un bisogno impellente per tutti coloro che fanno della creazione di luoghi un mestiere, una ragione di vita.

È qui che il ruolo dell’architetto assume un’importanza inedita ma assolutamente irrinunciabile. Fino a che mancheranno spazi fisici in cui la “terza via” possa divenire reale, sarà impossibile anche solo creare le condizioni primarie di una città priva, almeno in alcune aree, di assenza.

Si tratterebbe di isole urbane in un arcipelago composto da una serie infinita di altre realtà, tutte possibili e tutte esistenti nello stesso momento. La complessità urbana è l’insieme di tutte queste isole a cui si potrebbe aggiungere qualche elemento nuovo in cui sia dato spazio al libero pensiero, alla sincera espressione delle caratteristiche che rendono ognuno di noi unico e non duplicabile. In queste isole il “tertium” permetterebbe di sconfiggere l’assenza, di riavvicinare le persone, di rendere le relazioni sociali di nuovo possibili e sinceramente desiderabili. Si tratta di luoghi in cui si supera il dualismo imperfetto, in cui Bene e Male non sono opposti e nemmeno coincidenti ma semplicemente due tra le infinite e variopinte possibilità che i rapporti tra le persone e tra le persone e le cose possono offrire.

Agli architetti il compito di pensarli, di immaginarli, di raccontarli; a tutti quanti gli altri la fortuna di poterli vivere, anche solo in minima parte.

Il non esserci di tali luoghi garantisce all’assenza un ruolo primario nella nostra vita all’interno delle città. Se nulla dovesse cambiare saremo costretti a continuare a vagare senza sosta in un arcipelago urbano incompleto e incompiuto in cui gli incontri avvengono tra umanità distanti, tra persone sconosciute che si avvicinano per poi allontanarsi, che si scambiano solo uno sguardo prima di procedere a fatica, come navi alla deriva che si incontrano nella notte.

23 settembre 2015