di Marco Biraghi
È forse l’aspetto più interessante di Expo Milano 2015, sicuramente il più stupefacente. Migliaia di persone, quotidianamente, si sottopongono a massacranti prove fisiche, non solo e non tanto per visitare l’esposizione nella sua intera estensione, su e giù lungo il cardo e il decumano, dentro e fuori i padiglioni, i cluster, le bancarelle, i chioschi; piuttosto, per visitare un unico e solo padiglione.
Innanzitutto, quale padiglione? Ovviamente, le scelte dei visitatori di Expo Milano 2015 ricadono su diversi padiglioni, quelli ritenuti più attraenti, secondo logiche in cui conta moltissimo il passaparola, sulla base di una sorta di “sapere orale” che circola come un virus all’interno dei confini della stessa Expo, e che si diffonde poi a macchia d’olio attraverso i social network.
Ora, non è tanto importante dire qui quali padiglioni riscuotano più consensi, e perché. Ciò che è molto più rilevante è comprendere le ragioni per cui i visitatori – molto visitatori, migliaia di visitatori, alla fine della manifestazione milioni di visitatori – decidano di puntare “tutto” (tutto il tempo della loro visita, traducibile in termini monetari nell’intero valore del loro biglietto giornaliero) su un unico obiettivo, o quasi.
Apparentemente la risposta è semplice, addirittura banale: perché, vista la grande affluenza di pubblico, e visto che per alcuni (sempre più) padiglioni l’attesa si aggira tra le sei e le otto ore, in molti casi non è materialmente possibile visitare in un giorno più di un padiglione. Ciò rende naturalmente ancora più cruciale – letteralmente strategica – la scelta del padiglione. È evidente infatti che, riducendosi a uno solo, o a due al massimo, la visita deve cercare attraverso di esso (o di essi) di centrare i propri obiettivi in termini di soddisfacimento delle – è il caso di dirlo – attese.
E qui emerge l’aspetto forse più interessante e sicuramente più stupefacente di Expo Milano 2015. Al di là di motivazioni specifiche, in linea di massima sempre possibili ma nel complesso abbastanza rare, non vi sono fondate ragioni a orientare la grande massa dei visitatori davanti a questo o quel padiglione: non ragioni di merito (l’effettivo interesse nei confronti dei contenuti esposti all’interno o dell’allestimento con cui sono messi in mostra) né ragioni più generali (culturali, sociali, politiche, altro). La sola e unica ragione che spinge la folla ad ammassarsi di fronte a un unico e solo padiglione (ovvero tante folle ad ammassarsi di fronte a tanti padiglioni) è il tempo di attesa.
L’attesa è una condizione che soltanto a uno sguardo superficiale potrebbe essere giudicata negativa. Certo l’attesa spazientisce, quando si ha fretta, quando c’è qualcosa da fare. E non solo: l’attesa urta contro la logica stessa che regolamenta tutti i fenomeni del mondo contemporaneo: fenomeni immediati (letteralmente, senza mediazione), e dunque necessariamente – e auspicabilmente – istantanei, senza attesa. E qui si ripresenta di nuovo l’aspetto stupefacente di Expo Milano 2015 (di tutte le edizioni di Expo?): una volta varcati i cancelli del recinto espositivo, le abitudini che ci regolano e ci condizionano nella vita “normale” vengono improvvisamente meno: svanisce ogni fretta, s’istituisce un tempo festivo in cui non c’è nulla da fare, se non far “passare il tempo” della visita.
E ciò ci riporta all’attesa. Non c’è bisogno di rispolverare Samuel Beckett per sapere che l’attesa è qualcosa di più della semplice dilazione di quel che – soltanto potendolo – si raggiungerebbe il prima e il più velocemente possibile. L’attesa è spesso una condizione e basta, un modo di essere, di stare, di vivere. In certi casi l’attesa va oltre se stessa, va oltre i propri obiettivi. In molti casi l’attesa riempie un vuoto. Nel caso di cui ci occupiamo l’attesa riempie il vuoto gigantesco che ingombra in maniera sovrastante, in maniera imbarazzante, Expo Milano 2015. È questa la miglior spiegazione del fatto che migliaia e migliaia di persone, ogni giorno, decidano di trascorrere il tempo della propria visita in coda.
In coda si chiacchiera, si guarda il telefono, si fa conoscenza, ci si nutre, ci si annoia. In coda non si fa niente. In coda – per quattro, sei, otto ore, con tempi di attesa sempre crescenti e dunque, per un sorprendente paradosso, sempre più attraenti – si vive, si “passa il tempo”, semplicemente. Ma spesso si fa anche qualcosa di più: in coda si fa qualcosa insieme ad altre persone, si fa qualcosa di accomunante, se non addirittura di “eroico”, di “epico”. Si fa la coda. «Ho fatto una coda di otto ore!» – è qualcosa da raccontare ad amici e parenti, ben più del contenuto di qualsivoglia padiglione. Non è un caso che, nelle interviste televisive o radiofoniche di cui vengono fatti oggetto, all’uscita dagli agognati padiglioni, i visitatori parlino assai meno di quanto hanno visto al loro interno – e certo meno volentieri e in termini assai meno entusiastici – rispetto a quanto lo facciano invece di quel che è toccato loro in sorte per entrarci; una sorte che ha al tempo stesso il potere d’innalzarli, di “nobilitarli”, e di tenerli al riparo dall’inevitabile delusione. Alla fine, di un’unica cosa è valsa davvero la pena: aver fatto la coda.
E allora, perché questo modo di stare insieme in cui si è tutti aggregati, e al contempo tutti avversari; perché questa forma di relazione aperta ma in realtà anche tanto esclusiva; perché questa condizione che mette alla prova la nostra pazienza ma nutre pure il nostro orgoglio; perché questa espressione di civiltà così poco amata in Italia, ma in fondo così profondamente italiana: perché tutto questo non potrebbe diventare un modello? Perché non pensarci, tra i tanti possibili riutilizzi dell’area, al termine di Expo Milano 2015? Perché non organizzare una coda?
20 ottobre 2105