Nuovi clienti

di Nicolò Ornaghi e Francesco Zorzi

– Socialismo. La versione milanese

Milano da bere è un fortunato spot pubblicitario datato 1985. Viene prodotto per la ditta Ramazzotti, celebre per l’omonimo amaro alle erbe, da un noto pubblicitario milanese, Marco Mignani, fondatore del ramo italiano (Rscg Mezzano Costantini Mignani) dell’agenzia RSCG di Jacques Séguéla, celebre pubblicitario francese autore di molte campagne pubblicitarie per Francoise Mitterand. Come Séguéla anche Mignani produrrà pubblicità politica: inventa, nel 1987, quel “Forza Italia” per la Democrazia Cristiana che ispirerà successivamente il movimento politico di Silvio Berlusconi.

Milano che rinasce ogni mattina, che pulsa come un cuore, positiva ottimista, efficiente” recita lo spot.

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Immagine principale della campagna pubblicitaria Amaro Ramazzotti. Milano da bere, 1985

La prima architettura iconica d’Italia, un grattacielo a forma di bottiglia di Ramazzotti, emerge dallo skyline di Milano. È l’imbrunire. L’aperitivo segna la soglia tra il vecchio lavoro diurno negli uffici della Milano industriale e i frenetici ritmi notturni dei nuovi luoghi degli affari.

Occorre un’infrastruttura adeguata alla nuova dimensione. Il clima sociale, la rinnovata condizione economica segue dinamiche sovranazionali dove l’attenuazione della tutela statunitense sulla Germania, l’Italia e i paesi usciti sconfitti dalla guerra ha, come conseguenza, un’iniziale rapida decrescita economica come anche una flessione considerevole sulle configurazioni baricentriche del potere nazionale e locale.

In particolar modo, il ruolo egemonico della Democrazia Cristiana viene ridimensionato in quanto risente dell’attenuazione dell’ideologia democratico-conservatrice tutelata dalla presenza degli Stati Uniti. Allo stesso tempo i partiti di sinistra subiscono una deradicalizzazione delle loro frange estreme, sia per la scomparsa degli avversari politici, la DC, oggetto di contestazione, sia per una certa mediazione (esemplificata dal tentativo di compromesso, cosiddetto storico, promosso da Berlinguer) che superava alcune istanze ritenute inviolabili negli anni, collocabili tra il ’65 e il ’75, delle contestazioni generalizzate.

La classe operaia, sempre più piccolo o medio borghese, si estende, adesso, anche a una formazione progressista democratica, contestatrice ma non antagonista. Allo stesso tempo viene meno un’amministrazione centrale con forte potere contrattuale – quale quello della DC – e conseguentemente viene a mancare la capacità di imporre decisioni condivise perlomeno dalla maggioranza stessa. I cambiamenti strategici che riportano il sistema in condizioni di equilibrio sono frutto del coinvolgendo di nuove e varie identità politiche o associative, tra le quali il Partito Socialista viene ad assumere una forte centralità nel ricoprire il ruolo di tramite tra una sinistra, come abbiamo visto, non più operaista ma medio borghese e gli intellettuali liberali. Dove l’aggettivo liberale – è opportuno sottolinearlo – si distanzia sideralmente dall’impostazione liberista corrente propria della Seconda Repubblica in Italia e, più in generale, della finanza globale.

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Carlo Tognoli e Bettino Craxi in Piazza Duomo, ca. 1990

A Milano, molto più che altrove si è resa evidente la migrazione, tutta interna a posizioni moderate, che muovono, seppur di poco, il baricentro politico dal centro verso la sinistra.
Il governo di centro, costituito come progressista di orientamento socialista ha sostituito di fatto, anche se solo in parte, la Democrazia Cristiana al ruolo di comando. Ora è il PSI che deve contare sulla contrattazione per ottenere amministrazioni stabili.

Le varie figure che compongono il firmamento politico milanese ottengono posizioni di comando: Carlo Tognoli, tra i sindaci di giunta socialista, rappresenta la figura emblematica del politico risoluto, diretto, concreto e di buon acume con una chiara strategia politica che funge da mediatore tra decisionismo attuativo e interessi ed esigenze differenti.

Una mediazione, del resto, indispensabile all’ambizioso progetto riformativo che trasforma radicalmente e in modo improvviso la scala della città e il suo ruolo all’interno del cambiamento strutturale delle dinamiche sovranazionali. Con la svolta liberista esemplificata dalle amministrazioni anglosassoni di Thatcher e Reagan, mutano profondamente gli assetti istituzionali e i quadri aziendali anche a livello nazionale dove, dal dopoguerra in poi, si è avuta una larga prevalenza del ruolo pubblico negli assetti macro-economici.

– Periferie. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore

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Copertina del primo numero della rivista Hinterland, direttore Guido Canella, 1978

“Nel momento in cui le periferie da un lato si estendono dall’altro premono sulla spinta di un hinterland che ricopre un ruolo importante nello scacchiere produttivo – non solo a Milano ma a Milano prima che altrove – si rende evidente che quell’idea di città sostanzialmente isotropa e autoriproduttiva, perché totalizzante, in realtà presentava delle forti diversificazioni, sia per processi disomogenei che l’avevano interessata nelle varie parti sia perché doveva fare fronte a domande che stavano emergendo prepotentemente”.[note]Sergio Crotti, intervistato dagli autori il 29 agosto 2015[/note]

“Qui non si costruiscono più da anni cose serie perché ogni progetto è ostacolato da una barriera di veti incrociati. Appena qualcuno suggerisce un’idea scattano dietrologie paralizzanti. La colata di cemento sulla città viene poi fatta ugualmente, alla chetichella, sui progetti piccoli, meno importanti. Oppure con progetti imponenti, ma alle porte della città. Già perché questa è la vera follia. I veti si fermano alla cintura del dazio. Ci sono politici disposti a farsi schiacciare da un carro armato piuttosto che consentire che qualcosa venga costruito in città. Ma poi a qualche centinaia di metri, magari verso Assago, nessuno vede più niente e tutto diventi improvvisamente lecito”.[note]C. Brambilla, Una tessera un progetto, La Repubblica, 1/05/1992. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1992/05/01/una-tessera-un-progetto.html[/note]

Una delle figure trasversali rispetto al contesto politico e culturale e milanese degli anni in analisi è Guido Canella. Attraverso precoci esperienze professionali nell’hinterland milanese Canella comprende, molto prima di altri, il potenziale insito nelle zone della fascia periurbana. Canella, e forse prima di lui Vercelloni tramite il Collettivo di architettura, intuiscono che i comuni dell’hinterland (non a caso Canella chiamerà una sua rivista Hinterland), lungo la fascia intorno a Milano sono una risorsa fondamentale per il progetto. Per prima cosa poiché, nel centro di Milano, si costruisce poco: le aree sono sature e, con la moda che inietta denaro nella cerchia dei bastioni, i prezzi salgono alle stelle, mentre nei comuni limitrofi si trovano ancora zone di espansione e dentro a quei luoghi non sono più tanto le amministrazioni del partito comunista (peraltro mai dominanti in Milano e provincia) quanto piuttosto l’orientamento del partito socialista a definire operativamente e formalmente le nuove aree d’espansione.

L’affiliazione presso i socialisti diventa fondamentale per ottenere commesse negli spazi ancora disponibili. In tal senso è fondamentale considerare che, tra i soci dello studio Canella – Guido Canella, Michele Achilli, Daniele Brigidini – vi è un parlamentare di area socialista.

Michele Achilli siede infatti in parlamento nella X Legislatura (dal 2 luglio 1987 al 22 aprile 1992) in quota PSI. Achilli è, in realtà, un politico più che un architetto e, considerate le dinamiche di attribuzione di molti progetti, specialmente pubblici, in quel periodo, non è difficile immaginare come lo studio Canella sia in una posizione piuttosto avvantaggiata. Inoltre, come abbiamo notato, lo spazio di manovra nei comuni limitrofi è molto più elastico che in centro città in gran parte perché, anche grazie alla loro posizione orbitale, le amministrazioni sono molto più spregiudicate, basti pensare alla parabola di Mani Pulite e della Duomo Connection dove il sindaco di Bollate, Elio Acquino è, in entrambi i casi, coinvolto. Nei decenni ’70, ’80, ’90 a Bollate vengono spesi decine e decine di miliardi. Una commessa, per il quartiere residenziale IACP di Bollate, giunge anche a Canella nel 1974.

Canella capisce che occorre operare una transizione: dal punto di vista politico, dal comunismo giovanile al socialismo dominante nella Milano del PSI, e linguisticamente occorre allontanarsi dal rigore formale memore dei fasti della prima modernità, da quell’architettura di Aldo Rossi o Carlo Aymonino, esemplificata dal quartiere Gallaratese, che rimane, formalmente e dal punto di vista urbanistico-sperimentale, una realizzazione unica. Canella propende quindi per un linguaggio architettonico di compromesso, meno rigoroso, più smussato, che tratta molti temi architettonici in maniera disinvolta in un ambiente in cui circola molto denaro e le possibilità di costruire sono reali e concrete. Un apparato iconografico più “spendibile”, anche attraverso memorie storiche e allusioni locali talvolta forzate che sfoceranno in una chiara parabola involutiva, nel post-modern alla Perotta.

– Il maestro della quantità

Il 17 febbraio 1992 Luca Magni entra in uno dei locali della presidenza del Pio Albergo Trivulzio a Milano per consegnare una busta con sette milioni di lire in contanti. Il beneficiario è Mario Chiesa, esponente del PSI e presidente dell’istituto ospedaliero per anziani, noto anche come la Baggina, dal nome dell’antica strada su cui l’edificio affaccia e che ancora oggi porta a Baggio.
Chiesa viene arrestato in flagrante, nel suo ufficio, mentre ripone nel cassetto della scrivania la busta contenente il denaro, una tangente consegnata da Magni, un piccolo imprenditore taglieggiato, che per primo denuncia le richieste di soldi in cambio degli appalti.
La Procura di Milano indaga per concussione e convince la vittima a collaborare. Una banconota ogni dieci è firmata dall’allora pubblico ministero Antonio Di Pietro e dal capitano dei carabinieri Roberto Zuliani. La somma è la metà della tangente richiesta da Chiesa: 14 milioni di lire, il 10 per cento del valore dell’appalto (140 milioni) per le pulizie del Trivulzio.

È l’inizio di una storia a tutti nota che porterà alla fine del partito più longevo d’Italia, Il Partito socialista Italiano, oltre a decretare il capolinea politico della Democrazia Cristiana.
Come noto, è infatti sul campo dell’urbanistica, della progettazione infrastrutturale e della pianificazione territoriale che si gioca la partita delle tangenti. Appare un ruolo inedito per la figura dell’architetto: da progettista – anche spregiudicato – delle più svariate operazioni immobiliari ad attore primario nelle dinamiche di potere che governano il territorio, figura di rilievo nei meccanismi decisionali che collegano la pianificazione urbanistica e architettonica alle sue più strette componenti politiche e relazionali.

Idealmente l’operazione Manipulite è la continuazione di un’indagine di pochi anni prima, denominata Duomo Connection, condotta dai giudici Giovanni Falcone e Ilda Boccassini e conclusa nel 1990. Si tratta di un’inchiesta sulla penetrazione mafiosa a Milano dove tra i molti capi di imputazione ve ne sono alcuni inerenti alle concessioni edilizie da parte del Comune di Milano dove, secondo l’accusa, i clan siciliani avevano preso contatti con importanti esponenti dell’amministrazione. Tra i funzionari indagati per corruzione spiccano i nomi dell’assessore all’urbanistica Attilio Schemmari e del sindaco Paolo Pillitteri. La posizione di quest’ultimo viene archiviata al termine delle indagini preliminari, mentre Schemmari viene rinviato a giudizio e condannato nel processo di primo grado, poi annullato nel 1995 dalla Cassazione.

Di lì a pochi anni il nome di Schemmari, così come quello di Pillitteri, torneranno con prepotenza nelle cronache nazionali e internazionali: il primo maggio, ironicamente nel giorno della festa del lavoro, vengono recapitati a Carlo Tognoli e Paolo Pillitteri, ex sindaci di Milano, avvisi di garanzia nel quadro dell’inchiesta Manipulite. Pochi mesi dopo è il turno di Andrea Balzani, figura chiave dell’urbanistica milanese, “architetto, socialista doc, urbanista stimato e temuto in tutta Milano, da vent’anni consulente del Comune, padre nobile di quel Piano casa che nei primi anni Ottanta fece girare la ruota della fortuna edilizia dalla parte di Salvatore Ligresti”[note]G. Buccini, Nei guai “mister urbanistica”, Corriere della Sera, 15/09/1992, pg. 38[/note]. Viene interrogato da Piercamillo Davigo che indaga su una presunta tangente da venti o trenta milioni ricevuta prima della campagna elettorale del ’90 dall’allora sindaco di Bollate, Elio Aquino. Una parte della tangente sarebbe andata al mensile Lettera Milanese, diretto proprio dall’ex assessore all’Urbanistica Attilio Schemmari.

Ma partiamo dal Piano Pluriennale di attuazione, approvato nell’aprile 1989, di cui Balzani è considerato il Deus Ex Machina. Nei tre anni successivi il piano prevede la costruzione di 19 milioni di metri cubi, 12 dei quali fanno riferimento a piani regolatori precedenti. Tra i 7 milioni aggiunti figura il Piano Casa, 250 ettari di suolo agricolo convertito a terreno edificabile; l’imprenditore edile che si aggiudica l’appalto è Salvatore Ligresti, il “re del mattone”. Come nel caso di Silvio Berlusconi, il mattone è punto di partenza per la creazione di un impero successivamente proteiforme: nel caso di Berlusconi il fulcro sarà la comunicazione televisiva mentre per Ligresti il ramo d’azienda trainante è rappresentato dal reparto assicurativo, prima con SAI e successivamente dopo la fusione con FONDIARIA, con il colosso FONDIARIA-SAI.

Già nell’86 il conte Carlo Radice Fossati, assessore DC all’urbanistica, e il repubblicano Franco De Angelis avevano denunciato i favori della giunta PSI e PCI a Ligresti, e per questo motivo erano stati allontanati. Erano stati sostituiti da due assessori appartenenti al partito dei Verdi, rendendo ancor più surreale il piano di cementificazione. “Un feeling particolare, quello con le maggioranze PSI e PCI, scoperto nell’ottobre ’86, quando scoppia lo scandalo delle “aree d’oro”, la prima disavventura giudiziaria di Ligresti. La storia è questa. Il 18 marzo ’86 l’assessore all’Urbanistica, il DC Carlo Radice Fossati (la giunta è un pentapartito), fa approvare una delibera con cui il Comune acquista dei terreni agricoli di Ligresti a cinquemila lire il metro. (…) La precedente giunta di sinistra aveva già concordato l’acquisto di quei terreni a prezzi enormemente più bassi: 500, 800 e 1.000 lire al metro. L’assessore fa rovistare fra i cassetti del Comune e trova le lettere di impegno, firmate dal suo predecessore, il comunista Maurizio Mottini. Le lettere, stranamente, non sono protocollate. (…) Il sospetto è quello di un accordo inconfessabile fra il costruttore e la vecchia giunta di sinistra. Parte un’inchiesta della magistratura. E il sindaco Carlo Tognoli, che aveva guidato anche la precedente giunta, quella di sinistra, si deve dimettere. Lo scandalo è forte, ma l’inchiesta della Procura si chiude con un’archiviazione. Dai rivoli delle “aree d’oro” è però scaturita una delle due inchieste ancora aperte su Ligresti. Il costruttore, alla fine del ’90, è stato infatti rinviato a giudizio per corruzione insieme con un’ex dipendente del Comune, l’avvocato comunista Maria Grazia Curletti”.[note]M. Bra, G. Buccini, Dalle aree d’oro dell’ 86 all'”assessorato ombra”, Corriere della Sera, 17 luglio 1992[/note]

4_TORRI LIGRESTI
Helvetia Engenereing, Torri di Via Stephenson, 1989

Il portato delle operazioni è ben visibile su tutto il territorio comunale: le oramai celebri “torri gemelle” che Salvatore Ligresti costruisce, tramite la società Helvetia Engineering, in serrata sequenza durante la seconda metà degli anni ’80, punteggiano le aree dismesse o agricole nei vari punti di ingresso della città. Le torri dall’inconfondibile composizione architettonica, costituita da un parallelepipedo ricoperto di vetro specchiante, sono sempre accostate da un vano esterno per le scale d’emergenza. Tutte le torri sono caratterizzate da un piano vuoto a coronamento dell’altezza, solitamente di 40 metri che consente di aumentarne il volume edificato. L’unica variante è rappresentata da leggere differenze nelle cromie utilizzate per i dettagli di finitura, a volte rossi, a volte verdi altre volte semplicemente grigi.

Non occorre quindi definirne, caso per caso, le componenti architettoniche, è opportuno invece elencare le collocazioni dei vari interventi, se non altro per sottolinearne la capillare diffusione sul territorio milanese. Un complesso per uffici (due torri da 40 mt) si trova via Cavriana al numero 20, in zona Forlanini. Continuando su via Cavriana si arriva in Via Tucidide in zona Ortica dove vengono costruite sette torri con corpi di collegamento per un totale di 250.000mc fuori terra. In Via Stephenson, lungo la direttrice nord-ovest che oggi porta a EXPO, Ligresti costruisce un altro complesso di cinque torri da 200.000mc fuori terra. E ancora un distretto terziario/amministrativo e industriale (anche qui cinque torri dotate di corpi di collegamento, mense ecc.) in via Ripamonti per un totale di 350.000 mc fuori terra. La Helvetia Engineering costruisce anche a Milano sud: quattro torri vengono costruite al Lorenteggio in via Gonin, due in via dei Missaglia, altre cinque sul Naviglio Grande in via Milani. Da qualsiasi parte si entri in Milano dall’hinterland, le torri gemelle sono ben visibili. A oggi, in gran maggioranza benché in percentuali diverse da zona a zona, sono vuote per la misura di centinaia di migliaia di metri quadri.

L’affaire Ligresti non è un caso isolato ma rappresenta il paradigma di una pratica urbanistica tipicamente italiana – sviluppata soprattutto nel dopoguerra[note]E. Salzano, P. Della Seta, L’Italia a Sacco, Editori Riuniti, Roma, 1993, pg.80[/note] – che consente all’imprenditore siciliano la sua rapace scalata imprenditoriale. Una posizione centrale è infatti ricoperta dagli interlocutori privilegiati dell’imprenditoria, ovvero le amministrazioni comunali che affidano a privati, tramite trattative di varia natura, gran parte del territorio periferico milanese affinché venga urbanizzato.

Tale pratica è nota come urbanistica contrattata.

– Urbanistica e contrattazione

“Non possiamo neppure dimenticare che negli anni di Tangentopoli a Milano è stato in vigore un piano urbanistico che si era illuso di poter controllare per via legislativa, normativa, i rapporti tra lo spazio e la società. E che un’intera generazione di urbanisti si è stracciata le vesti ogni volta che le norme venivano incrinate, senza accorgersi del baratro che ormai separava queste ultime dalla vita quotidiana della città”.[note]Stefano Boeri, La rivincita della cronaca. In Lotus 82, 1994, pg.109[/note]

“Parlo dell’occupazione effettuata dai partiti del settore delle costruzioni. La lottizzazione ha raggiunto in questi anni livelli intollerabili. Ma poi il fenomeno era talmente grosso che è finito per scoppiare. Oggi i concorsi cessano di essere spartizioni e le Amministrazioni ricominciano ad affidare gli incarichi con criteri non clientelari, perlomeno nelle grandi opere. Ha però ragione l’urbanista Augusto Cagnardi quando fa notare, proprio sul vostro giornale (in un un’intervista pubblicata il 6 aprile, n.d.r.), come il grosso delle costruzioni, che resta affidato a ingegneri e architetti anonimi, continui a rimanere nelle mani della politica”[note]http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1990/04/22/rossi-premiato-rossi-contestato.html[/note].

La natura “contrattuale” del partito socialista – che ha poco a che spartire con il più famoso “contratto di Rousseau” – espone la trattazione dell’ambito di nostra competenza a particolari complessità sicché il governo degli strumenti tecnico-amministrativi con cui l’urbanistica opera, dipende da fenomeni abbastanza ampi.

5_PIANO PLURIENNALE ATTUAZIONE
PPA, Documento direttore sulle aree industriali dismesse, 1988-1991

Lo strumento urbanistico del Piano Regolatore Generale risulta, nel quadro complessivo di cambiamento, uno strumento superato nella sua eredità funzionalista. La sua configurazione sostanzialmente quantitativa non consente di anticipare assetti futuri ma distribuisce cubature e funzioni che hanno opzioni di espansione, contrazione o vincolo. A fronte dei cambi di orientamento di una società in mutazione costante, il PRG risulta essere uno strumento a senilità precoce, inadatto a competere con l’accelerazione dei meccanismi e dei tempi economici e sociali.

Si impone, quindi, negli anni ’80 la necessità di un riassetto concettuale dei piani urbanistici locali che, nel 2005, porterà all’introduzione del Piano di Governo del Territorio dell’area metropolitana milanese. Un diverso grado di elasticità si impone mentre, principalmente, si richiede un aggiornamento dello strumento urbanistico verso un’idea di città in mutazione rispetto a quella sottesa ai PRG, sostanzialmente considerata unitaria ed endogamica. La Milano degli anni ’80 inizia a presentare forti diversificazioni rispetto all’isotropia precedente, sia per processi disomogenei che interessano varie parti della città (differenziazioni di densità, pressione finanziaria, flussi veicolari, concentrazioni demografiche, dismissioni industriali, etc.) sia e soprattutto perché occorre fare fronte a domande che emergono prepotentemente scardinando e mettendo in crisi il modello di governo costituito da grandi enti pubblici e privati che coesistono nel tessuto cittadino. La mutata concezione urbana, diversificata e multiforme, richiede la comprensione di molte realtà compresenti, ognuna con esigenze e richieste specifiche. Al pensiero amministrativo e politico cosciente dei cambiamenti in atto corrisponde in connessione un pensiero urbanistico conscio di un’urbanità in mutazione.

6_ARCHITETTURA DELLA CITTA
Aldo Rossi, L’architettura della città, 1966

La teoria urbanistica milanese, in questo senso, appare piuttosto radicata anche grazie ad alcuni studiosi che, a partire dagli anni sessanta, iniziano a lavorare sulla nozione di città per parti e a registrare la crisi dell’urbanistica funzionalista. Occorre ricordare, su tutti, il contributo di Aldo Rossi e de L’architettura della città quale testo teorico anticipativo di molte tendenze pluricentriche successive. In questa logica vengono a ricoprire un ruolo centrale quelle aree, originariamente esterne, che l’espansione della città mette a contatto con il centro: le grandi dimissioni industriali legate alla produzione automobilistica come, ad esempio, il Portello o le grandi aree della chimica legate ad aziende come la Montedison, offrono una grande opportunità di conversione e forti incentivi per lo sviluppo grazie alle loro posizioni strategiche, spesso già ben servite dal sistema infrastrutturale. In queste zone nascono i progetti per le aree strategiche legati al Piano Pluriennale di Attuazione a cui molti architetti vengono chiamati a partecipare.

La nozione di urbanistica contrattata non nasce, quindi, come operazione necessariamente premeditata o strumentale atta a coinvolgere soggetti privati, anche sovranazionali, nell’attuazione di operazioni speculative. Perlomeno in origine, tenta di rispondere, attraverso un’idea condivisa da urbanisti, economisti e sociologi, alla mutazione in atto nel tessuto della città. Comprendendo un numero maggiore di attori, diversi per dimensioni e ruoli, la contrattazione vuole rispondere a molteplici esigenze di flessibilità. Non si può certo negare, tuttavia, che le innumerevoli varianti di una manovra di grande portata, dentro un contesto in rapido cambiamento, espongono le lacune intrinseche all’ampia flessibilità che la contrattazione permette: gli spazi interstiziali diventano preziosi, giacché consentono operazioni perlomeno discutibili (se non fuori legge) che confluiscono nelle cronache giudiziarie di Tangentopoli.

– “Questa città è uno scherzo amministrativo”[note]C. Brambilla, Una tessera un progetto, La Repubblica, 1/05/1992. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1992/05/01/una-tessera-un-progetto.html[/note]

Nella definizione teorica fornita da Edoardo Salzano e Piero Della Seta “l'”urbanistica contrattata” è la sostituzione a un sistema di regole valide erga omnes, definite dagli strumenti della pianificazione urbanistica, della contrattazione diretta delle operazioni di trasformazione urbana tra i soggetti che hanno il potere di decidere. Dove le regole urbanistiche si caratterizzano per la loro complessità, in gran parte dovuta al sistema di garanzie che esse costituiscono, e la contrattazione per la sua discrezionalità”.[note]E. Salzano, P. Della Seta, L’Italia a Sacco, Editori Riuniti, Roma, 1993, pg. 79[/note]

In altre parole si intende la sostituzione deliberata di dinamiche condivise e regolamentate con dinamiche relazionali private e fuori dal controllo della comunità: “A Milano la tradizione era antica. Fin dal dopoguerra si praticava il “rito ambrosiano”: una prassi, inventata ai tempi della maggioranza di centro, sembra dall’assessore democristiano Filippo Hazon, che “superava” le norme del piano regolatore vigente rilasciando concessioni edilizie (allora si chiamavano ancora “licenze di costruzione”) là dove non si sarebbe potuto, con l’ipocrita formula della “licenza in precario”. Ma è all’inizio degli anni 80 che il “rito ambrosiano” entra nelle sua fase propulsiva. Vengono approvate decine di varianti puntuali, con le quali si autorizzano oltre 12 milioni di metri cubi di nuove strutture edilizie per il terziario: come se le nuove funzioni avessero lo stesso carico urbanistico delle precedenti, e come se fosse del tutto indifferente la loro collocazione nella città: per di più, in una città trasformatasi in una agglomerazione caotica, destrutturata, invivibile e inefficiente”.[note]Ibidem, pg. 82[/note]

La grande componente di discrezionalità propria della contrattazione espone il piano urbano a un elevato fattore di rischio. Nel caso di Milano, nell’utilizzare come strumento primario la contrattazione urbanistica per una riqualificazione di grande portata ed elevata complessità, si è concesso a voraci appetiti di affaristi privati di viziare lo sviluppo sistemico di grandi aree pubbliche o semi-pubbliche. La miscellanea stretta che viene a crearsi tra i decisori non è solo nociva per la cosa pubblica ma depotenzia strutturalmente l’efficacia dello strumento di pianificazione urbanistica, che viene sottomesso al giogo contrattuale del rapporto amicale di interesse. Se si pensa, inoltre, alla collocazione delle vaste aree metropolitane in questione in rapporto alla loro evoluzione nella storia recente di Milano, è subito chiaro come nel periodo a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 tale pratica abbia mutato sensibilmente il rapporto tra privato e pubblico, consentendoci di tracciare una linea di continuità con la Milano contemporanea e le grandi operazioni di marketing territoriale cui è soggetta.

Un percorso caratterizzato dalla rivincita della cronaca[note]Stefano Boeri, La rivincita della cronaca, in Lotus 82, 1994, pg.108. Seguendo l’intuizione di Boeri nel lontano 1994 occorre constatare come, di fatto, il periodo storico in analisi sia effettivamente ricostruibile, dal punto di vista urbanistico e architettonico, utilizzando come strumento primario la cronaca giornalistica dei periodici o quotidiani piuttosto che le riviste e le pubblicazioni di settore.[/note] sul saggio teorico, dove l’architettura, a Milano prima che altrove, diventa nota non più per la rigorosa trattazione disciplinare, metodologica o storica ma si distingue soprattutto per le cronache giornalistiche delle vicende tangentizie arrivando – oggi – a ottenere pagine patinate attraverso operazioni pubblicitarie più o meno raffinate proprie del marketing della città.

Il Piano Pluriennale di attuazione 1988-1991 prevede, oltre al Piano Casa, molte pianificazioni che avranno lungo corso nel futuro della città di Milano, alcune delle quali, ad oggi, non sono ancora terminate e in molti casi saranno occasione di contrattazione tra gli enti amministrativi e gli operatori privati. Oltre ai 250 ettari di nuovo insediamento abitativo vi sono 1,3 milioni di metri cubi di capannoni industriali, 1,8 di terziario, mezzo milione di residenziale aggiuntivo (approvato in giugno 1989), un grande palasport a San Siro (progetto di Aldo Rossi, mai realizzato) circondato da 12 palazzine di 10 piani e un milione di cubatura in nuovi alberghi, senza contare tutte le connessioni infrastrutturali necessarie.

Nel solo ramo alberghiero i progettisti coinvolti sono, quasi a regime di monopolio, gli architetti legati al partito socialista: tre alberghi sono affidati a Laura Lazzari, moglie di Epifanio Li Calzi e socia di Giancarlo Perotta: lo studio prima condiviso da tutti e tre fu sdoppiato (lo studio di Epifanio Li Calzi si trasferì in via Quadronno) perché il ruolo pubblico di Li Calzi (assessore in quota PCI) avrebbe rischiato di danneggiare, per evidente conflitto di interesse, l’accesso alle commesse dello studio associato che invece, guidato dalla moglie e dal socio Perotta non esibiva, almeno superficialmente, la parzialità delle copiose assegnazioni. Un altro albergo da 600 posti, denominato Cosmo Hotel, è affidato a Dini, già presidente della metropolitana milanese.

7_TORRI BIANCHE E COSMO HOTEL DINI
Claudio Dini, Umberto Capelli, Torri bianche e cosmo hotel, 1989

Il vero asset fondamentale del piano sono, però, le aree industriali dismesse: la transizione da economia di produzione, che caratterizza la Milano nel dopoguerra, alla moderna città del terziario, lascia in stato di abbandono 400 ettari di terreni, molti dei quali in aree relativamente centrali. Si dà luogo quindi alla più grande operazione urbanistica del decennio, ventilata già negli anni ’70 ma mai portata a termine. Un’occasione storica, sulle aree delle fabbriche ormai disattivate si costruisce la Milano del 2000. È inoltre l’occasione per convertire a parco grande parte dei terreni creando nuovi polmoni per una città che dispone di soli cinque metri quadri di verde per abitante. Il programma della giunta rosso-verde di Pillitteri si fregia di questa intenzione, mettendo per iscritto, nel programma della giunta, una quota del 50% da destinarsi a verde pubblico per gli interi 400 ettari di superficie da riqualificare.

Se si indaga però la distribuzione funzionale delle principali aree industriali, Pirelli, Centro Direzionale (Repubblica e Varesine), Montedison e Fiera, 220 ettari su 400, si riscontra che all’interno della quota verde sono compresi anche i servizi (nella loro più eterogenea accezione), sottoponendo la quota parco a una ferrea cura dimagrante che riduce la percentuale al 21% del totale. “Anche includendo parcheggi e “servizi”, però, i conti non tornano: la percentuale complessiva nei quattro progetti è del 39%. Ecco allora apparire una seconda giustificazione: “Il 50% si riferisce al totale delle aree dismesse, non a ogni singolo progetto”, taglia corto Schemmari. E qui si accettano scommesse. Infatti, una volta cementificate le prime quattro grandi aree, nelle restanti la quota a verde dovrebbe, per compensazione, salire al 70%. E quale privato sarà mai disponibile a trasformare in parco una percentuale simile dei suoi preziosissimi terreni?”[note]M. Suttora, R. Schiena, Cemento di favore, Europeo, 20/01/1989[/note]

Analizziamo in particolare un’area specifica, quella indicata da piano come “centro direzionale Garibaldi Repubblica” la cui storia è emblematica nel definire il quadro relazionale ed amministrativo del periodo in analisi. L’area compresa tra il centro direzionale e le Varesine comprende diverse vicende chiave della stagione tangentizia. Su tutte, un caso “Mani pulite” ante litteram ha come protagonista un architetto, Bruno De Mico, costruttore milanese, condannato, prescritto, risorto un decennio più tardi, nuovamente come ineffabile regista di affari: sarà proprio lui, nel 2004, a cedere alla Hines della famiglia Catella, dopo lunga trattativa, l’area di sua proprietà nelle ex-Varesine, porzione mancante del lotto su cui sorgono i grattacieli di Garibaldi-Repubblica.

“Il fenomeno è generalizzato, si va da una mancia per avere la patente alla tangente per costruire palazzi: dirlo può non far piacere, ma nel mio ambiente è così”[note]P. Foschini, Addio a De Mico, re delle carceri d’oro, Corriere della Sera, 9/01/2010, pg. 6[/note]. Nel 1988, con quattro anni di anticipo su Mani pulite, De Mico accusa ministri, sottosegretari e politici di vario genere. Il conto delle tangenti versate tramite la società Codemi è di 70 miliardi di lire. Molti i “rami d’azienda”, dalle “carceri d’ oro” (prigioni costruite in cambio di tangenti), fino alla vicenda che interessa l’area Garibaldi-Repubblica, nota come il Centro Direzionale.
“La zona è quella che va, grosso modo, dalla stazione di Porta Garibaldi al terrapieno dove una volta stavano le ferrovie Varesine. (…) L’architetto De Mico ne possiede una fetta: circa sessantamila metri quadri, per un valore che si aggira intorno ai cento miliardi. (…) Come ha fatto De Mico ad aggiudicarsi quel terreno d’oro? L’ha avuto dalle Ferrovie dello Stato. Con l’ente ferroviario De Mico deve avere la mano fatata, visto che nel giro di pochi mesi ha ottenuto l’appalto per la costruzione di due grattacieli da 40 miliardi l’uno, e anche l’area d’oro delle ex-Varesine. Per i due grattacieli (uno già terminato, l’altro alle fondamenta) l’architetto sostiene di aver pagato 1.200 milioni di tangente. Suddivisi così: 400 a Rocco Trane, braccio destro di Signorile, e 800 a Gian Stefano Milani, deputato della sinistra socialista. (…) Ma se quello dei grattacieli è un ottimo affare, il colpo grosso di De Mico è sull’area d’oro. Le Ferrovie dello Stato l’avevano avuta dal Comune, in uno scambio praticamente alla pari con un’altra area, scambio che chiudeva un vecchio contenzioso aperto ai tempi della costruzione di Porta Garibaldi. E quando ottengono l’area ex-Varesine, che fanno le Ferrovie? La cedono alla Codemi di De Mico, in cambio di 289 appartamenti per ex-dipendenti. Un affarone per l’architetto. Soprattutto se si pensa che gli appartamenti verranno costruiti su un’area, fra le vie Guerzoni e Butti, dove sarebbero dovute nascere case per gli sfrattati. Chi ha cambiato la destinazione, da edilizia per sfrattati a edilizia per funzionari e impiegati di enti pubblici? Carlo Radice Fossati, democristiano, all’epoca assessore all’Urbanistica, dice che la destinazione era di competenza del suo collega Gian Stefano Milani, quello stesso Milani che figura nella contabilità nera di De Mico”[note]F. Ravelli, Colpo grosso dell’architetto De Mico, la nuova sede del consiglio regionale, La Repubblica, 3/08/1988.  http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/1988/08/03/il-colpo-grosso-dell-architetto-de-mico.html[/note].

8_TORRI PEROTTA
Giancarlo Perotta, Laura Lazzari, Torri centro direzionale Porta Garibaldi, 1984

Facile immaginare come il restyling delle torri perottiane non costituisca solo un aggiornamento tecnologico, ma corrisponda alla riconfigurazione semantica di uno dei simboli della contrattazione urbanistica stile anni ’80 di cui la parabola tangentizia è conseguenza pressoché scontata.

Il terreno di De Mico, poi venduto a Hines, è una porzione di tre ettari sui 33 totali del centro direzionale (una porzione di terreno appartiene anche a Ligresti). La grande maggioranza (il 75%) è terreno pubblico: sei ettari delle Ferrovie dello stato, 18 del Comune. All’interno di tale terreno il comune ha in piano di costruire, tra le strutture necessarie al nuovo polo direzionale, una torre adibita a Palazzo della Regione, operazione che non verrà portata a termine, sicché gli uffici comunali saranno rilocati nel grattacielo Pirelli ceduto al comune. Il concorso per il piano urbanistico viene indetto nel 1991 e nelle indicazioni di bando, l’area destinata al nuovo palazzo della Regione è situata non nella porzione pubblica ma sul terreno di De Mico.

Al concorso partecipa anche Rossi che, nelle vicende di riqualificazione urbana in corso a Milano, viene coinvolto insieme ad altri importanti professionisti milanesi. Nel caso dell’area del Portello viene coinvolto insieme ad altre personalità di spicco dell’ambiente professionale dell’architettura italiana tra cui Mario Bellini e Pier Luigi Spadolini. Per il Centro Direzionale elabora un piano insieme ad Andrea Balzani con cui, anni prima, aveva collaborato al progetto per l’area della Bicocca nel concorso di prima fase. Sono progetti assimilabili non solo per il rapporto collaborativo tra Balzani e Rossi. Sono entrambi progetti che implicano “una discreta indipendenza dal disegno generale della città”[note]A. Ferlenga (a cura di), Aldo Rossi tutte le opere, Mondadori Electa, Milano, pg.296[/note] nella presa di coscienza (come è noto, ben radicata in Rossi) che l’architettura della città e la sua costruzione abbiano un rapporto di “discreta indipendenza dai problemi urbani più generali”[note]Ibidem.[/note].

Il progetto per il centro direzionale si costituisce in parti, elementi architettonici impostati attorno alle strade che segnano l’area, principalmente via Melchiorre Gioia, via Fabio Filzi e viale della Liberazione. È proprio nella giacitura di quest’ultimo e nel suo ideale “asse monumentale“ di viale Tunisia che Rossi colloca un grande muro di mattoni che divide l’asse viario da una vasta zona a prato distinta da una lieve pendenza in dislivello. La nuova area a verde contiene gli edifici richiesti da bando: una grande torre binata sormontata da una copertura a gradoni) collocata perpendicolarmente, come ideale chiusura dell’asse della porta nuova di Giuseppe Zanoja, dove oggi sorgono gli edifici di Arquitectonica. Vi sono poi un auditorium comunale, un residence, un albergo, una biblioteca e il palazzo della Regione. Quest’ultimo, di forma quadrata, riecheggia un progetto giovanile di Rossi per un centro direzionale a Torino, noto come Locomotiva 2.

Balzani ricorda con queste parole il progetto e la collaborazione con Rossi: “Abbiamo appena consegnato il concorso Garibaldi-Repubblica. Il gruppo di progettazione è quello di Aldo Rossi. È stato un bel lavoro e il progetto mi sembra convincente. Non abbiamo però alcuna possibilità di vittoria. Infatti anche se il bando è stato rispettato, i volumi previsti ci sono tutti, abbiamo rigorosamente lasciato a verde l’area (molto piccola) di Ligresti, il nostro progetto è più un manifesto civile che un programma di edificazione che è quello che si vorrebbe avere dai concorrenti. Abbiamo deciso così Aldo ed io (…). Il passaggio dalla città manifatturiera alla città dell’informazione, in questo caso economica, è segnato dalla torre della Borsa, quello alla città del sapere dalla biblioteca e dall’auditorium. Abbiamo corrisposto all’impegno assunto nel 1984 con il Documento direttore (Documento direttore del Progetto Passante redatto nel 1984 da Geppe Longhi, ndr) di utilizzare quelle aree solo per “funzioni irrepetibili nella dimensione regionale” (…) Quel vuoto rappresenta un bene raro per la città e dovrebbe costituirsi come elemento inconfondibile e permanente nel paesaggio urbano, anche nelle sue inevitabili mutazioni”[note]A. Balzani, La fantasia negata. Urbanistica a Milano negli anni Ottanta, Marsilio Editori, Venezia, 1995, pg.53.[/note].

9_VISTA PROSPETTICA ROSSI BALZANI
Aldo Rossi, Andrea Balzani, Vista prospettica e pianta per il concorso per il centro direzionale Garibaldi-Repubblica, 1991

24 ottobre 2015