di Alberto Ferlenga e Marco Biraghi
Pubblichiamo qui il testo introduttivo al catalogo della mostra Comunità Italia. Architettura / Città / Paesaggio 1945-2000, a cura di Alberto Ferlenga e Marco Biraghi, pubblicato da Silvana Editoriale. La mostra è visitabile dal 27 novembre 2015 al 6 marzo 2016 alla Triennale di Milano.
La comunità ci è data con l’essere e come l’essere, ben al di qua di tutti i nostri progetti, volontà e tentativi. In fondo, perderla ci è impossibile. Anche se la società è il meno comunitaria possibile, non è possibile che nel deserto sociale non ci sia, infima o addirittura inaccessibile, comunità.
Jean-Luc Nancy, La comunità inoperosa (1986)
Si potrebbe osservare come da un certo punto di vista sia proprio l’assenza – e finanche il deserto – di comunità ad indicarne l’esigenza come ciò che ci manca, e anzi come la nostra stessa mancanza.
Roberto Esposito, Communitas (1998)
Sintetizzare mezzo secolo che in Italia ha avuto simbolicamente inizio con la sfilata delle truppe partigiane nelle città liberate, che a metà del suo percorso ha conosciuto il vento della “rivoluzione studentesca” e operaia, per poi impaludarsi nelle sabbie mobili del terrorismo e riemergere in un mondo globalizzato e quasi subito frastornato dalla sua prima vera crisi, è probabilmente impossibile. Soprattutto se quel mezzo secolo si ostina a prolungarsi nel nuovo millennio e a condizionarne gli eventi. È difficile, anche se il punto di vista scelto è quello molto particolare dell’architettura. Probabilmente la poca distanza dai fatti e l’implicazione più o meno diretta di chi li racconta rendono ancora arduo il decantarsi di questioni essenziali e il consolidarsi di quella lontananza personale che ha permesso agli storici di inquadrare altre epoche poco più lontane.
O forse quel mezzo secolo, nel suo allevare una complessità nuova ha pregiudicato la possibilità stessa di farsi raccontare attraverso quegli strumenti interpretativi (le storie dell’architettura) che, pure, la sua prima metà aveva generato. Tutto questo è possibile e sarebbe in fondo scarsamente importante rilevarlo se stessimo parlando della coda ininfluente di un secolo che ha dato il meglio di sé nei suoi decenni inaugurali. Mano a mano, però, che la parzialità di una lettura “in corso d’opera” e spesso strumentale lascia il posto a uno sguardo più ampio e aperto, appare chiaro come il lasso di tempo di cui stiamo parlando ha avuto, in Italia, per quanto riguarda l’architettura, alcune caratteristiche particolari che solo oggi è possibile cogliere nella loro ampiezza. Caratteristiche che, per taluni aspetti, hanno fornito risposte anticipate a problemi che la globalizzazione ha, in seguito, drammaticamente posto di fronte al mondo intero. Ci riferiamo a questioni di fondo, come la necessità di fare i conti, per quanto riguarda l’ambiente fisico, con i lasciti del passato, specie dove esso, come in Italia, ha avuto un peso rilevante. Ma anche l’opportunità di riflettere “dal vero” sulla vitalità di alcuni modelli urbani, che confermano l’autonomia formale di quella che è stata considerata “cosa umana per eccellenza”. E ancora, si potrebbero aggiungere la natura degli spazi pubblici, il comfort domestico, il rispetto ambientale, la questione energetica, la partecipazione, terreni praticati estesamente – tra gli entusiasmi post-bellici e il ritorno degli architetti italiani alla ribalta internazionale – e spesso con largo anticipo rispetto al loro manifestarsi globale come sintomo di una sensibilità mutata. E quel che è più importante, praticati attraverso l’uso di una varietà linguistica e di una qualità progettuale senza pari.
Nei confronti di questo scenario la questione che oggi si pone è: ci possono bastare le letture fatte sin qui? Sono sufficienti per rendere la complessità di una vicenda oltremodo articolata e tutt’ora in itinere, in cui le competenze tra diversi rami dell’arte non sono mai del tutto definite e i luoghi affermano sempre la loro influenza? Le letture che abbiamo a disposizione, per i motivi cui si è accennato, sono state in grado di restituire solo una parte minima di questa vicenda. Come era inevitabile, visto il periodo e le pulsioni che l’hanno attraversato, ciò che è prevalso sono le restituzioni “militanti”. Anch’esse, peraltro, oggi ci appaiono come parte integrante di quella storia e oggetto di ricerca, e pur mettendo l’accento su una questione, quella dei rapporti con la politica, la società e il contesto internazionale, imprescindibile per comprendere la particolare natura dell’architettura italiana di quegli anni, non sono riuscite del tutto a coglierne l’estensione e l’“utilità” per gli anni a venire. Lo impediva una separazione tra le discipline della storia e della progettazione che si andava radicalizzando in nome di due distinte e discutibili autonomie; e lo impedivano pure le polarizzazioni che ne sono derivate: tra scuole e scuole, tra città e città, tra schieramenti culturali e schieramenti politici, spesso evocate dagli stessi protagonisti di quegli anni ma vere solo in parte e comunque non sufficienti per capire la complessità del periodo. Sicuramente utili, invece, a costruire una scena congelata nelle sue certezze, in cui l’equilibrio tra attori principali e comprimari viene attribuito a priori, sulla base di questioni esterne alla sostanza artistica e alle ragioni di ogni percorso. L’uso delle categorie attraverso le quali quel tempo è stato prevalentemente letto comporta classificazioni che oggi ci appaiono rigide, gerarchie non più convincenti. Etichette come “professionalismo”, eclettismo, individualismo, diventate vere e proprie condanne, cancellano intrecci e profondità quando non sono l’oblio o la rimozione a chiudere i conti con ciò che non si può capire. La maggior complicazione nel restituire quel tempo è che il complesso scenario di vicende multiple che lo ha caratterizzato appare percorso da relazioni ricche e complesse che, a fatica, incominciano a emergere cambiando il quadro conosciuto fino ad oggi. In effetti, quando affermazioni pubbliche spesso convenzionalmente uniformi nascondono percorsi privati ben più ricchi e interessanti, la scena si complica e dalla superficie delle vite umane e professionali affiorano relazioni inaspettate.
La stessa vicenda di figure indiscutibilmente studiate e di grande peso, come Aldo Rossi, attende ancora una lettura che sappia andare oltre il mito costruito da lui stesso e, in seguito, dai suoi allievi, per recuperare vene intellettuali imprevedibili e anticipatorie presenti nel suo lavoro. Il meccanismo delle rimozioni e delle classificazioni schematiche non ha, d’altra parte, risparmiato nessuno. Figure interessanti e diverse tra loro, come Guglielmo Mozzoni, Alberto Ponis, Davide Pakanovsky, Pino Pizzigoni, Arturo Mezzedemi, Enrico Taglietti, solo per citarne alcuni, sono assenti dalle storie ufficiali. Per altre, appartenenti a generazioni, luoghi, e formazioni lontane tra loro, come Adolfo Natalini, Leonardo Ricci, Giovanni Michelucci, Maurizio Sacripanti, Aldo Loris Rossi, Vittorio De Feo, Paolo Soleri, Luigi Vietti, si è scelto di sottolineare esclusivamente alcuni aspetti, come il radicalismo o il presunto ecclettismo, ancorando il loro ricordo a una parte minima del loro lavoro. Ma una sorte analoga è toccata anche ad architetti più legati al mainstream culturale di quegli anni come Vittorio Gregotti, Carlo Aymonino, Saverio Muratori, Giancarlo De Carlo, Giorgio Grassi, Antonio Monestiroli, Gabetti & Isola ecc., la cui propensione a legare progetto, luoghi e teoria, pur a partire da punti di vista differenti, si è trasformata in una sorta di gabbia che ha fatto sì che una componente pur importante del loro contributo all’architettura diventasse, nel bene o nel male, l’unico aspetto rilevante, mettendo spesso in secondo piano l’apporto progettuale che di quelle teorie era al tempo stesso la conseguenza e l’origine.
E il discorso potrebbe continuare per i “confinati” in un ambito quasi esclusivamente professionale come Ignazio Gardella, Franco Albini, Edoardo Gellner, Luigi Caccia Dominioni, lo stesso Renzo Piano, prima che raggiungesse la fama universale, oppure in un ghetto universitario, come Gianugo Polesello, Francesco Cellini, Pasquale Culotta, Salvatore Bisogni, o infine per i “vincolati” all’esclusivo apprezzamento delle virtù poetiche, come Francesco Venezia o Umberto Riva, o grafiche, come Franco Purini.
In realtà l’architetto italiano di quegli anni è stato una figura composita, non facilmente collocabile in categorie e non paragonabile per estensione a quanto successo in altri paesi. Le esperienze di molti hanno spaziato dalla pratica puramente professionale a quella didattica, dall’attività curatoriale a quella teorica, intrecciandosi spesso con ruoli istituzionali, politici, accademici. Anche la capacità di rileggere e riscrivere brani di storia, di interpretare il territorio di appartenenza o in generale i territori del loro operare, di proporre un proprio specifico punto di vista nel panorama internazionale e di presentare la propria opera attraverso una capacità grafica fuori dal comune, è stata una caratteristica ben specifica della cultura architettonica italiana negli anni compresi tra la fine della guerra e la fine del secolo. È sufficiente questo per poter parlare di una sorta di “comunità”, ben conoscendo la distanza tra le singole esperienze? Indubbiamente no, anche se in quegli anni alcune comunità sono state effettivamente il terreno di coltura di una particolare attitudine a unire riflessioni, luoghi, responsabilità sociali che l’architettura italiana ha indubbiamente affermato nel momento in cui i grandi incubatori della modernità stavano sfaldandosi. Dalla Nomadelfia di Don Zeno in cui si forma il “quasi architetto” Danilo Dolci (che in seguito svilupperà in Sicilia la sua opera sociale), alla “Comunità” di Adriano Olivetti con gli esperimenti di Ivrea, Pozzuoli, Matera in cui verranno praticate nuove modalità di vita e di lavoro, senza escludere le vere e proprie “comunità di fatto” tenute assieme dall’appartenenza ideologica e organizzate in scuole, associazioni, strutture di partito.
In realtà, per poterlo ancora usare mantenendosi al riparo da possibili equivoci o da impossibili approssimazioni, il termine “comunità” deve essere sottoposto a un’indispensabile revisione. Per Olivetti la comunità è stata la pietra angolare sulla quale ha basato molteplici imprese, tra il 1945 e il 1960: una rivista, una casa editrice e sopra ogni altra cosa un movimento politico, animato da una “fede laica” in un’Italia federalista, solidarista e personalista. Accostando e mescolando ideologie fra di loro molto diverse, Olivetti ha postulato la possibile esistenza di una «società socialista-comunista e cristiana», come scrive in L’ordine politico delle Comunità, la trattazione organica del suo pensiero in materia di organizzazione statuale pubblicata all’indomani della cessazione delle ostilità: «La Comunità è intesa a sopprimere gli evidenti contrasti e conflitti che nell’attuale organizzazione economica normalmente sorgono e si sviluppano fra l’agricoltura, le industrie e l’artigianato ove gli uomini sono costretti a condurre una vita economica e sociale frazionata e priva di elementi di solidarietà». «Creando un superiore interesse concreto», afferma Olivetti, la Comunità tende a «comporre detti conflitti e ad affratellare gli uomini».
E tuttavia, non soltanto nell’Italia del dopoguerra, fortemente divisa tra schieramenti politici fieramente contrapposti, e poi nell’Italia della crisi seguita al boom economico, scossa da tensioni via via sempre crescenti, l’idea di una comunità pacificata e animata da principi di fratellanza appare del tutto irreale, oltreché irrealizzabile; ma anche nella riflessione filosofica più generale elaborata nel corso degli ultimi cinquant’anni, incentrata sul tentativo di definire il senso della comunità, quest’ultima è sempre considerata un problema, assai più di quanto non riesca a rappresentare una soluzione. La comunità, in questo senso, risulta una proiezione mitica, un’ideale da inseguire più che un obiettivo concretamente raggiungibile. E ancor di più: la comunità non è un progetto che si possa perseguire positivamente, né è qualcosa che unisca semplicemente sulla base di una decisione o di un’adesione: non è qualcosa che tutti i suoi componenti possiedano, e che dunque conferisca un’identità a ciascuno – e ancor meno, che conferisca un’identità a tutti. Non vi è alcuna omogeneità, alcuna comunanza d’intenti o di idee in essa, o grazie a essa. Piuttosto la comunità è qualcosa che condiziona tutti coloro che vi appartengono, qualcosa che tutti “subiscono” e con cui tutti sono costretti a confrontarsi, ciascuno a modo proprio, e dunque in modi anche nettamente differenti.
L’unica vera comunità cui sono attribuibili gli architetti nostrani tra il secondo dopoguerra e la fine del secolo è pertanto quella definita dall’appartenenza a un territorio eccezionale come quello italiano. Un territorio dove sembrano permanentemente sospese le “logiche” correnti; dove spesso il secondario e il minore paiono assumere una rilevanza più grande di ciò che è primario e maggiore; dove le contraddizioni e i conflitti si sono rivelati non di rado produttivi delle più straordinarie eccezioni, insieme alle più desolanti storture e sciagure.
Come avviene per altri campi quali il cinema, la fotografia, la moda, è questo legame territoriale, che agisce per vie sotterranee, a sganciare gli apporti di ingegneri e architetti dai riferimenti iniziali e farne casi del tutto singolari. E la particolarità di quel paesaggio e della sua influenza su arti e tecniche è stata indagata da quei fotografi-topografi italiani che hanno sostituito pittori e scultori nel ruolo di “compagni di strada” degli architetti a partire dalla fine degli anni ’60: Luigi Ghirri, Giovanni Chiaramonte, Mimmo Jodice, Gabriele Basilico, e prima di loro Ugo Mulas, Paolo Monti, Mario Giacomelli.
È questo vincolo ineliminabile, oltre a quello con un materiale specifico, il cemento che, ad esempio, rende eccezionale e riconoscibile l’ingegneria italiana tra gli anni ’50 e i ’70, anche se per ogni figura di quell’ambito – Nervi, Musmeci, Morandi, Favini, Zorzi, Levi ecc. – andrebbe fatto un discorso a parte. È, ancora, questa relazione prioritaria a far sì che operazioni di avanguardia come quelle ideate da Superstudio o Archizoom, originariamente suggestionate da vicende internazionali, acquisiscano una connotazione particolare e unica, che le cosiddette versioni post-modern nazionali assumano un valore autonomo come d’altra parte era capitato in Italia, cinquant’anni prima, ai migliori seguaci del razionalismo o dell’organicismo. Si può dire che su questa sorta di impossibilità a sottrarsi dal peso e dall’influenza esercitata dai luoghi si generi non solo un carattere comune differenziato nelle parole e nei gesti progettuali, ma si manifestino quelle anticipazioni di temi che nel momento in cui il nuovo millennio ci metterà di fronte la questione dell’ambiente e l’esplodere delle città, torneranno a essere utili.
La migliore architettura italiana è “condannata” a prendersi cura degli scenari dentro cui si sviluppa la sua azione, anche quando la sua vena può apparire provocatoriamente distruttiva. Il suo collocarsi, comunque sia, in contesti ricchi di storia e di bellezza, unito alla sensibilità sociale dei suoi protagonisti, le attribuisce una sorta di responsabilità che appare come un marchio di fabbrica e che genera un’enorme quantità di soluzioni che – sotto la scorza dei linguaggi diversi – rivelano a chi le voglia leggere e non semplicemente inquadrare, un’importanza che travalica il tempo che le ha prodotte. Una sorta di utopico realismo, si potrebbe dire, se non fosse un controsenso. Ma è proprio così: la capacità di innestare idee di futuro nell’attenzione alle condizioni del presente.
Vecchio e nuovo, grande dimensione e misura umana, trasformazione e attenzione al territorio, modernità e conservazione, marciano spesso di pari passo nelle esperienze dei nostri migliori architetti costruendo un patrimonio il cui studio può riservare ancora grandi sorprese.
Questo volume, che accompagna una mostra che vorrebbe essere una prima perlustrazione di un paesaggio vasto, si propone di segnalare solo alcuni dei nodi problematici che risulterebbero stretti dentro il format di una storia che forse, come si è detto, non è più possibile scrivere ma che, nella forma dello spunto o della descrizione geografica, trovano una modalità più utile di interpretazione.
22 novembre 2015