Indifferenza come forma di impegno politico

Edifici e spazi pubblici nell’opera di Lacaton & Vassal

di Antonio Lavarello

Indifferenza

Gli edifici pubblici progettati da Anne Lacaton e Jean-Philippe Vassal affrontano le questioni poste dalla complessità della società contemporanea attraverso una sorta di non-scelta programmatica, intesa come una condizione necessaria a garantire la libertà e la responsabilità di coloro che utilizzeranno quegli stessi edifici.

Lo spazio pubblico, sia esso chiuso o aperto, interno o esterno, viene offerto alla società come un campo libero, disponibile di volta in volta ad essere trasformato e completato attraverso l’uso e l’appropriazione. I progetti di Lacaton & Vassal sono quasi nulla o, utilizzando le loro stesse parole, una forma di estrema «delicatezza»:

«Over the years we have come to understand the importance of the superimposition, whether this involves architecture or urbanism. The wellbeing, but also the dreams, of contemporary society seem to depend on the way in which an existing situation encounters a new situation, two temporalities, two states of mind. Each time we tackle a project we think in terms of an intervention in an existing fabric, the history of which may be real or dependent on a fiction. The goal is to superimpose our new intentions, but without imposing them onto pre-existing systems – we hope to do this with scruples and delicacy so that a third place is born, a product of the two previous ones»[1]

Così l’indifferenza formale dei due architetti francesi non coincide con la «neutralità» che Hans Ibelings ha identificato come una delle possibili declinazioni del supermodernism[2] da lui descritto, ma costituisce paradossalmente una forma di impegno sociale e assume persino un chiaro significato politico: è un atto di resistenza all’idea che il progetto sia sempre e soltanto un’imposizione top-down, ed è una conseguenza della consapevolezza che ogni sistema di differenze prima o poi finisce per cristallizzarsi in una gerarchia.

Similmente all’epoché, la sospensione del giudizio degli antichi scettici, questa posizione ha un preciso valore etico; come per gli scettici, anche per Lacaton & Vassal l’epoché determina una forma di atarassia, ovvero l’imperturbabilità di fronte al vorticare delle forme dell’architettura contemporanea. L’atarassia è un effetto della precedente «scelta di non scegliere», e non è solo una reazione snobistica al rumore di fondo della «città generica»[3] o un mimimalismo aristocratico contro la proliferazione del «junkspace»[4].

Palais de Tokyo. Foto di Antonio Lavarello.
Palais de Tokyo. Foto di Antonio Lavarello.
Palais de Tokyo. Foto di Antonio Lavarello.
Palais de Tokyo. Foto di Antonio Lavarello.

Una sorta di epoché architettonica è rappresentata dall’intervento di rifunzionalizzazione del Palais de Tokyo a Parigi (2002-2012): l’edificio degli anni 30 è stato «lasciato praticamente nudo, disponibile per l’azione invece di essere completato e abbellito per disputare all’artista il ruolo del protagonista»[5]; questa strategia è legata da un lato alla difficoltà di definire uno spazio per la creazione artistica contemporanea attraverso le categorie tradizionali, dall’altro lato dal carattere suggestivo dell’edificio preesistente.

Al di là degli adeguamenti tecnici, gli interventi sono minimi e le suddivisioni dello spazio sono ridotte quanto più possibile: le idee principali sono la libertà nel tempo e nello spazio, la flessibilità e l’apertura a nuove, inaspettate, riscritture. Lacaton & Vassal hanno considerato il nuovo Palais de Tokyo come l’oggetto di un lungo processo di ri-appropriazione, non del tutto prevedibile negli esiti. In questo senso risulta particolarmente interessante l’analogia proposta da Karine Dana[6], che ha paragonato l’architettura dello studio francese con una sceneggiatura, capace di generare una pluralità di storie senza definirle completamente.

 

Generosità

École Nationale d'Architecture, Nantes. Foto: Jean-Pierre Dalbéra
École Nationale d’Architecture, Nantes. Foto: Jean-Pierre Dalbéra
École Nationale d'Architecture, Nantes. Foto: Jean-Pierre Dalbéra
École Nationale d’Architecture, Nantes. Foto: Jean-Pierre Dalbéra

Nell’École d’Architecture di Nantes (2009), questa indifferenza qualitativa è accompagnata da una straordinaria generosità quantitativa. La costruzione del doppio della superficie richiesta dal bando di concorso produce un’eccedenza di spazio disponibile per usi stabiliti autonomamente dagli utenti, così come la capacità portante dei solai, superiore a quella abitualmente adottata per questo tipo di edifici, consente agli studenti di costruire modelli in scala 1:1 o di introdurre nelle zone comuni nuove partizioni temporanee[7]. La grande rampa che collega tutti i piani amplia la libertà di movimento all’interno dell’edificio, mentre il piano terreno costituisce una sorta di estensione degli spazi aperti circostanti. L’architettura è un dispositivo indifferente che ospita quelle differenze che sorgono dalla sovrapposizione di funzioni permanenti e temporanee. Ospitare può essere letto su due piani differenti: significa essere ben equipaggiati per contenere e supportare tante più cose, azioni, persone possibili ma anche, in relazione alla specifica destinazione sia del Palais de Tokyo sia dell’École d’Architecture, costituire un palinsesto neutrale  che non influenzi le attività che vi si svolgono. L’indifferenza è quindi intesa come un terreno fertile per la creatività artistica e la cultura in senso più generale. La presenza della grande rampa enfatizza un possibile richiamo al tipo del parcheggio: l’indifferenza sembra così trasfigurare in cinica ironia[8].

A Parigi come a Nantes l’approccio di Lacaton & Vassal è lontano da un minimalismo stilistico  à la page: non rappresenta la riduzione forzata fino ad un punto di arrivo estetico che non accetta ulteriori differenziazioni, ma piuttosto il punto di partenza per successive stratificazioni. In questo senso la strategia dello studio francese costituisce una disgiunzione tra forma e uso e tra spazio ed evento, simile a quella prefigurata da Bernard Tschumi[9].

FRAC (Fond Regionale d'Art Contemporaine). Foto: Frank Formsache
FRAC (Fond Regionale d’Art Contemporaine). Foto: Frank Formsache

Nel FRAC (Fond régional d’art contemporain) Nord-Pas de Calais (Dunkerque, 2013) la generosità in termini di spazio è stata usata come chiave per confrontarsi con la riqualificazione di un edificio proveniente dal passato cantieristico della città. Il capannone preesistente è stato raddoppiato, non solo in senso quantitativo, ma anche dal punto di vista tipologico ed iconico, generando una sorta di clone, indifferente al problema dell’invenzione di una nuova forma. Il vecchio edificio è stato lasciato completamente vuoto, preservando in questo modo la spazialità originaria e allo stesso tempo conservando un luogo adeguato per grandi installazioni ed eventi[10], mentre il volume interno del nuovo edificio è articolato e frammentato dalla complessità del programma funzionale.

La ricchezza estetica e il dinamismo derivanti dalla libertà che Lacaton & Vassal garantiscono agli utenti risulta particolarmente evidente nel Teatro polivalente di Lille (2013). L’edificio, simile ad un hangar, con il suo basso profilo (in senso letterale e metaforico) e le numerose partizioni mobili, i sipari scorrevoli, la ricca dotazione di attrezzature, è una sorta di Fun Palace senza la retorica della meccanizzazione e, per riferirsi alle parole di Herman Hertzberger[11], può davvero rappresentare la «scintilla» capace di accendere il motore di un’ampia varietà di attività che contribuiscono a illuminare, colorare e far risuonare lo spazio ogni volta in modo diverso[12].

 

Riferimenti

Sia il layout essenziale degli edifici di Lacaton & Vassal che le loro posizioni teoriche possono suggerire un richiamo all’elogio del «piano tipo» del grattacielo americano, inserito da Rem Koolhaas nel suo  S,M,L,XL; benché infatti possa sembrare bizzarro comparare l’umanesimo partecipativo di dello studio francese all’implacabile «pura oggettività» del grado zero dell’architettura capitalista, eppure la definizione data da Koolhaas non appare del tutto inappropriata: «architecture stripped of all traces of uniqueness and specificity»[13]. Non solo questo intervento teorico, ma anche alcune opere dell’architetto olandese mostrano possibili connessioni con la produzione di di Lacaton & Vassal; ma le «strategie della realtà»[14] di OMA – materiali cheap, spazi fluidi aperti ad usi non convenzionali – non si limitano ad accettare la complessità della società contemporanea (come nell’approccio dei due francesi) ma si adoperano attivamente per enfatizzarla. Ci si può riferire qui all’estetica caotica di alcuni lavori risalenti agli anni ’90: edifici come il Kunsthal di Rotterdam (1992), il Congrexpo e l’Espace Piranésien a Lille (1994), l’Educatorium di Utrecht (1997), e progetti di concorso come la Très Grand Bibliothèque di Parigi (1989), il centro congressi di Agadir (1990) e le biblioteche Jussieu a Parigi (1992).

La generosità dello spazio e la pura quantità come condizione per uno spazio democratico possono ricordare alcuni degli ultimi lavori di Mies, in particolare le ipotesi progettuali per una grande sala da concerti (1942) e per la Chicago Convention Hall (1954).

L’attenzione alle relazioni tra spazio e utenti, l’estetica austera, la presenza dichiarata degli impianti tecnici possono suggerire un’attitudine neobrutalista, ma senza la fascinazione per le forme imponenti o per le aggregazioni di cluster; il  béton brut di Lacaton & Vassal non mostra alcuna retorica scultorea tardo-lecorbusieriana, ma costituisce solamente uno scheletro per sovrastrutture e involucri leggeri. Se volessimo trovare un riferimento a Le Corbusier, dovremmo forse guardare al pragmatismo della Maisono Domino (1914); e se volessimo risalire ancora più a fondo la tradizione francese del calcestruzzo armato, troveremmo probabilmente il garage Ponthieu dei fratelli Perret (1907).

L’apparente nichilismo estetico e l’idea di un’infrastruttura abitata suggeriti dagli edifici di Lacaton & Vassal possono inoltre essere messi in relazione con l’architettura radicale degli anni ’70, in particolare con l’opera di Archizoom e Superstudio. In questo caso però il realismo e il pragmatismo sostituiscono la polemica, rigorosa neutralità che invece caratterizza altre forme di nuova radicalità, come quella rappresentata dall’architettura non figurativa di Dogma (Pier Vittorio Aureli e Martino Tattara).

La teoria e la prassi di Lacaton & Vassal costituiscono comunque un approccio che può essere definito radicale, seppur in modo diverso, e che vede portare ad estreme conseguenze l’epoché a cui già si è accennato. È il caso della piazza Leon Aucoc a Bordeaux (1996), dove i due francesi, incaricati di riqualificare tale spazio pubblico, hanno rifiutato di progettare una nuova sistemazione, suggerendo alla pubblica amministrazione di usare parte del budget per finanziare interventi di ordinaria manutenzione. Come osservato da Inaki Abalos[15] questo atteggiamento richiama quello dello scrivano Bartleby, protagonista del racconto Herman Melville, che alle richieste del titolare dello studio legale presso cui lavorava rispondeva «preferirei di no», con un atto di umile ma tenace resistenza.

 


[1]Anne Lacaton – Vassal, Jean-Philippe, Structural freedom, a precondition for the miracle, in: ‘Lacaton & Vassal. Recent work’, 2G, nr. 60 (2012), 162.

[2]Hans Ibelings, Supermodernism. Architecture in the Age of Globalization (RotterdaM: Nai Publishers, 2002).

[3]Rem Koolhaas, The Generic City, in Rem Koolhaas – Bruce Smau, ‘S,M,L,XL’(New York: The Monacelli Press, 1995), 1239-1264.

[4]Rem Koolhaas, Junkspace, in Chuihua Judy Chung – Jeffrey Inaba – Rem Koolhaas – Sze Tsung Leong,The Harvard Design School Guide to Shopping / Harvard Design School Project on the City 2′ (Köln: Taschen, 2001).

[5]Inaki Abalos,  An imaginary mapping, in: ‘Lacaton & Vassal. Recent work’, 2G, nr. 60 (2012), 4-16. La traduzione è dello scrivente.

[6]Karine Dana, On Lacaton & Vassal: an attempt a voiceover, in: ‘Lacaton & Vassal. Recent work’, 2G, nr. 60 (2012), 17-24.

[7]«Our quest for a change is conditioned by the freedom granted to the user by the structure – his freedom to move about, to instigate an activity wherever he happens to be, to be alone somewhere. This suppleness comes from using lightweight building systems with frames, from their independence with respect to the program, their weak impact, but also through the hugeness of this structure. The bigger or more spacious it is, the greater the number of stories that will be able to unfold there – and the more one will be able to expect of it». Da Anne Lacaton – Vassal, Jean-Philippe, Structural freedom, a precondition for the miracle, in: ‘Lacaton & Vassal. Recent work’, 2G, nr. 60 (2012), 165-166.

[8]In altri casi il cinismo è temperato da un green washing più politicamente corretto, come nel caso dei fiori sulle facciate del padiglione della Fiera di Paris Nord Villepeinte (2007) o del polo universitario del management a Bordeaux (2006).

[9]Bernard Tschumi, Architettura e disgiunzione (Bologna: Pendragon, 2005).

[10]In questo senso è possibile rintracciare nel FRAC Nord-Pas de Calais un riferimento alla Turbine Hall della Tate Modern di Londra, ovvero la centrale elettrica di Bankside di Giles Gilbert Scott (1952) riconvertita da Herzog & De Meuron (1995-2000).

[11]Herman Hertzberger, Space and the Architect. Lesson for in Architecture 2 (Rotterdam: 010 Publishers, 2010), 59.

[12]Una strategia simile caratterizza anche alcuni progetti di concorso dello studio francese: il centro per Holcim a Holderbank in Svizzera (2008), la biblioteca di Angoulême (2009), il Nobel Center a Stoccolma (2013), la sede dell’École normale supérieure a Cachan (2013), il campus della televisione svizzera a Losanna (2014).

[13]Rem Koolhaas, Typical Plan, in  Rem Koolhaas – Bruce Smau, ‘S,M,L,XL‘, op. cit., 355.

[14]Marco Biraghi, Storia dell’architettura contemporanea II (Torino: Einaudi, 2008).

[15]Inaki Abalos,  An imaginary mapping, op. cit. (note 5).