di Silvia Dalzero
Una narrazione continua del fenomeno architettonico del secondo Novecento è in mostra alla Triennale di Milano. Una vicenda architettonica ancora poco raccontata data la vicinanza temporale, che solo ora – acquisito il distacco necessario – può essere collocata nella storia, allargando il tempo e il significato, cogliendone gli aspetti duraturi e svelandone il valore generale. Comunità Italia, curata da Alberto Ferlenga e Marco Biraghi, è una lezione di architettura che sin dalle prime battute suggerisce la chiave di lettura, il carattere dell’intera esposizione. Sin dall’ingresso, infatti, attraverso l’opera scultorea di Pietro Consagra, lo sguardo è attirato dalla prospettiva centrale della grande tela di Arduino Cantafora, la Città analoga, il perno centrale attorno al quale pare ruotare tutta la mostra.
La mostra è un distillato di nozioni critiche, un’esposizione precisa e per quanto possibile completa della seconda metà del XX secolo. Comunità Italia narra qualcosa che va al di là della mera rappresentazione di un edificio o di un progetto; il percorso espositivo rivela una chiara distinzione rispondente a un mutamento della concezione architettonica avvenuta a cavallo del secolo. Si passa, infatti, dall’architettura come narrazione unitaria e sequenziale alla frantumazione, o meglio alla fusione di realtà apparentemente inconciliabili. Il percorso espositivo si dipana tra immaginazione, memoria e analogie.
Nella prima sala, un’installazione video elaborata da Giuseppe Ragazzini racconta i principali avvenimenti verificatisi in Italia nel corso del secondo ‘900; vi si intravvede un Paese dilaniato da atti di guerriglia e da catastrofi naturali. Con Italo Calvino si potrebbe dire: «Anche ricordare il male può essere un piacere quando il male è mescolato non dico al bene ma al vario, al mutevole, al movimentato, insomma a quello che posso pure chiamare il bene e che è il piacere di vedere le cose a distanza e di raccontarle come ciò che è passato» (Se una notte d’inverno un viaggiatore).
Nella prima sezione, oltre a mettere in evidenza una varietà linguistica del tutto sorprendente, vengono illustrate anche e soprattutto discipline e materie utili al fare e al pensare architettura. Gli allestimenti sono curati in particolare da Carmen Andriani, sull’evoluzione del cantiere, da Silvana Annicchiarico, sul design, da Chiara Baglione, sugli archivi, da Fernanda De Maio, sulle scuole di architettura, da Paola Nicolin sulle istituzioni culturali, e da Raffaella Poletti sull’editoria di settore. Ogni allestimento evidenzia, secondo punti di vista differenti, ciò è rimasto, nella memoria collettiva, della comunità italica, una comunità un tempo fatta di contrapposizioni, e che oggi tende invece a perdersi in un insieme di singolarità, di personalità isolate attente ad affermare un percorso individuale più che ad affrontare un ampio ragionamento sul linguaggio architettonico. Parlare di architettura non può prescindere in nessun modo dalle rappresentazioni grafiche, che in mostra assumono il carattere di vere opere d’arte: schizzi, disegni e quadri che divengono a volte oggetti davvero preziosi. Ai disegni si affiancano tuttavia anche altre modalità della rappresentazione: l’osservazione dello spazio architettonico da parte di alcuni dei migliori fotografi italiani ad esempio, da Gabriele Basilico a Luigi Ghirri, la cui opera – in particolar modo tra gli anni ’60 e ’90 – ha spesso incrociato e influenzato quella degli architetti.
‘In curva’ ha inizio il secondo tempo della mostra: qui l’esposizione si fa spazio architettonico, un vero e proprio abaco di elementi architettonici che si dispongono secondo un piano urbano, facendo compiere un’esperienza dell’architettura: modelli di edifici, di quartieri, finanche una ‘città di Dio’ composta da progetti di edifici a carattere sacro (chiese, monumenti, cimiteri…). Il percorso espositivo diviene, in tal modo, espressione architettonica, manifestazione spaziale di un corpo di conoscenze capaci di associare le forme dell’architettura a un contesto socioculturale che si articola nella mescolanza della disciplina. La possibilità di unire, concatenare conoscenze, mettere in relazione (progettando) materie diverse si rivela la chiave dell’esposizione; nella quale l’atto del compromesso appare un principio essenziale a cui si riferiscono – e in cui di sovente trovano risoluzione – le contraddizioni del passato, e i dubbi e le alternative del futuro.
Una lezione di architettura, si potrebbe dire, che senza gerarchizzare o frammentare mette in scena il progetto architettonico del secolo scorso come estrema sintesi di interessi generali e individuali; sintesi non priva di conflitti e di incontri, di dubbi e di convinzioni. D’altra parte il pensiero architettonico non permette e non accetta mai l’improvvisazione, è espressione del desiderio, del bisogno collettivo nebulosamente latente; un bisogno sempre disposto alla ricerca del ‘sublime’, inteso non come invenzione fine a se stessa ma come espressione dell’uso, dell’autenticità di forma e di significato.
Comunità Italia traduce il ‘valore’ del pensiero architettonico, spiega che un tempo gli architetti disegnavano chiaroscuri e ombre per scegliere il punto di vista, e proprio nel disegno, veicolo delle idee, si compiva una maniera particolare del pensiero architettonico. Una maniera che, oggi, si rivela, per lo più, silente, o frenetica, di fatto testimone di un’attualità fatta di immagini che scompaiono prima ancora di essere fermate e catturate. Un’attualità che trascina in una vertiginosa fuga in avanti, che rischia spesso di confondersi, di ridursi a nulla più che un istante. Un mondo caotico, del tutto opposto alla storia di cui narra Comunità Italia; che rivela invece quel carattere che, al di là delle differenze, unisce le molteplici ‘emozioni architettoniche’ ordinandole secondo un principio comune: il riconoscimento del reale e la capacità di dare forma al ‘significato’ delle cose.
Ciò che viene mostrato sono dunque un fare e un pensare l’architettura come messa in opera della realtà e come messa in scena dei suoi significati. Una realtà intesa non come consuetudine o apparenza, ma come essenza, costante e non variabile, capace di resistere e testimoniare ‘lo spirito del tempo’. Parafrasando Adolf Loos, Comunità Italia ricorda che solo quando verrà alla ribalta una generazione di architetti capace di fare architettura in accordo con la realtà e con l’identità di un luogo, come era nel secolo scorso, allora e solo allora nascerà una nuova architettura in cui tutti potranno riconoscere un’altra Comunità.
L’esposizione fa anche ripensare a ciò che diceva con astuzia Ludwig Mies van der Rohe: «L’architettura non si inventa ogni lunedì mattina». Vi si racconta infatti di un tempo capace di ‘istruire’, o meglio costruire il futuro. Non di interpretarlo, o peggio ancora di inventarlo, ma di immaginarlo e costruirlo concretamente a partire proprio dallo stato di fatto. Se ne conclude, allora, che le opere migliori sono quelle che rifiutano ogni storicismo e ogni tecnicismo, per cercare invece di dare risposta al problema della rappresentazione, alla ragione per la quale sono costruite. La bellezza non si trova nelle forme ma nella loro ragione civile.
Il cerchio si chiude con il compimento di un percorso che, partendo dalla difesa della complessità del reale termina, nel mondo attuale, in un’altra dimensione ambientale, in un diverso rapporto fra architettura e città, fra edificio e contesto storico-urbano. Nella parte conclusiva della mostra si affrontano le trasformazioni in atto oggi in Italia: quella radicale delle infrastrutture, il nuovo rapporto fra spazio vuoto e spazio costruito, pur per lo più silente, o privo di legami. Il punto della situazione è fatto per accenni, attraverso installazioni video che raccontano un’altra Italia, un territorio dal potenziale nascosto che tuttavia, a gran voce, chiede una ‘correzione’, un’opportuna risposta architettonica.
13 gennaio 2016