di Valerio Paolo Mosco
Superstudiomania, il revival di Superstudio e dei radical è diventato un fenomeno di questi tempi e come tale va considerato. Mi interessa ragionare non tanto su ciò che è stato Superstudio quanto sull’attuale radical revival, ovvero il ritorno della forma assoluta ed elementare, l’attuale attrazione nei confronti del minimalismo esaltato, un fenomeno questo che appare sfiorare la compulsione intellettuale.
“Terribili semplificatori” chiamava Voltaire i radicali illuministi, tra tutti Rousseau e da Rousseau è necessario partire. È stato lui il profeta dello stato di natura, dell’origine primitiva su cui impostare un futuro di virtù incontaminate. Egli si poneva il problema di mettere in relazione questo edenico stato di natura di libertà assoluta con il bene comune, ovvero con la giustizia sociale che come non può essere tale senza porre dei limiti alla libertà. Il problema non era semplice. Si racconta che Rousseau, andando a trovare proprio Voltaire, afflitto da questa inconciliabilità, avesse trovato la soluzione: se la libertà è, come egli presupponeva, un desiderio comune agli uomini e se gli uomini, poiché inquinati dalla civiltà, hanno perso il senso della stessa, allora bisogna tornare ad una presunta era dell’oro, ad una primitiva purezza, dove la libertà singola avrebbe corrisposto alla fraternità e all’uguaglianza.
Soluzione logica ma folle: la relazione infatti non lasciava vie di uscita: chi infatti non avesse sentito dentro di sé il desiderio della libertà ancestrale sarebbe stato un odiatore del genere umano, per cui necessariamente si sarebbe dovuto eliminare. Ecco perché Isaiah Berlin metteva in prima fila tra coloro i quali avevano ucciso la libertà proprio Rousseau, d’altronde le dittature basate sul bene comune si sa cosa hanno combinato. Il radical revival va dunque considerato ipotizzando vicino a sé il terribile semplificatore svizzero. Lo possiamo immaginare allora entusiasta delle seducenti immagini di Superstudio, ammaliato dagli apodittici video, esaltanti le griglie che coprono il mondo e pronto a fare una petizione per costruire un Monumento continuo, caso mai con l’aiuto di Bentham, l’inventore del panottico, con Fourier l’inventore del falansaterio e specialmente con Saint Simon che al tutto avrebbe dotato il belletto tecnologico. Tutti insieme sarebbero allora andati da Marx che del sogno del paradiso in terra ne avrebbe fatto una strepitosa teoria scientifica. Ad essi si sarebbero aggiunti Boullé e Ledoux, gli architetti rivoluzionari, i veri premonitori del Monumento continuo.
Gli esaltati vanno fermati; allora un gruppo di scettici liberali, con Voltaire, Schopenhauer e De Maistre, si oppongono fermamente: no, non è mai esistita un’età dell’oro, non esiste uno stato di natura edenico e guai a dimenticarsi che la libertà non esiste in assoluto, ma solo in relativo, tanto che essa appare realmente solo quando è negata. Sono passati più di due secoli, ma siamo ancora lì, alla diatriba tra assoluti virtuosi cultori della libertà e gli scettici liberali, intenti unicamente a combattere ciò che la nega. Possiamo allora pensare a questi scettici mentre irridono le frasi apodittiche, tornite e roboanti, mentre deridono gli slogan in bocca a primitivi tecnologici, nudi e puri, hippie pronti ad andare sulla luna e a Woodstock (caso mai lo stesso giorno) e oggi di ritorno dopo quasi cinquant’anni agghindati da hipster appena usciti dall’estetista. L’eterna seduzione della semplificazione quindi, che Kierkegaard aveva ben compreso: il seduttore, per conquistare la sofisticata e pudica donna sciorina le sue frasi ad effetto, con spavalderia fa si che la complessità femminea possa essere ridotta ad edenica semplicità, ad idillio di sensi liberati. Seduzione e pretesa di virtù dunque, sebbene possano sembrare non conciliabili, si congiungono tra loro in un chiasmo difficilmente scindibile. Il grande Taillerand, l’enigmatico ministro degli esteri di Napoleone e del periodo successivo, entrando al Congresso di Vienna prese il suo bastone e lo sbatté sul tavolo sentenziando: “Mi raccomando signori: niente virtù!”. Così salvò l’onore e le frontiere francesi.
Niente Monumenti continui dunque? Non è così. Un conto è infatti la politica, la filosofia e l’economia, un conto l’arte e, almeno in parte, l’architettura. Dal ‘700 in poi abbiamo infatti bisogno di forme assolute. Assistiamo infatti da duecento anni ad un fenomeno che fa si che ciclicamente la complessità e la contraddizione congenite dei nostri tempi, arrivano ad un punto di relativismo talmente debilitante che è necessario, per sopravvivere, ridurre ciò che ci circonda a delle configurazioni primarie: allora la terribilità dell’assoluto (il sublime), per una vera e propria eterogenesi dei fini, si trasforma paradossalmente in consolazione (in pittoresco).
Lo stesso vale per la decorazione: ci sono dei periodi in cui essa prevale ma poi c’è una reazione e allora si torna al moderno nudo. Kant chiamava questi fenomeni aporie e aporie sono quelle tra la forma complessa e quella elementare, tra la forma decorata e quella nuda e, come si sa, le aporie non sono risolvibili. E’ dunque chiaro che dopo anni di decostruttivismo, di overdesign agghindato e contundente, che è giusto considerare come il prodotto della grande espansione economica della fine del secolo scorso, oggi, in un periodo di grave crisi che ci fa comprendere che le risorse non sono infinite, la forma assoluta appare una reazione capace di appagare il nostro consolatorio desiderio inconscio di semplicità.
Si comprende di meno invece l’attuale attrazione intellettuale per il radicalismo assoluto, o meglio si comprende se entriamo nel mondo degli “antagonisti”, di coloro i quali inveiscono contro “l’impero” e suoi “stati di eccezione”, che vorrebbero rovesciare la “struttura” del sistema, che vedono complotti dappertutto meno che nelle università (possibilmente quelle ricche statunitensi) che li ospitano. Se il loro monumento, dopo cinquant’anni circa, è ancora quello continuo di Superstudio auspichiamo per loro una augurabile discontinuità. Rimane un fatto: i collage di Superstudio sono bellissimi, un perfetto equilibrio tra tecniche fotografiche e ritocchi a mano. Poi dopo gli artisti di Superstudio sono arrivati quelli che per pensare alla rivoluzione, per convincerci che ci sarebbe voluto ben altro, hanno smesso di disegnare bene, ma anche male.
9 marzo 2016