di Linda Stagni
Rientro dal Sudafrica, dove ho partecipato a un viaggio-studio in cui, oltre a fare la classica turista, ho visitato le periferie e le Township intorno a Cape Town. Il Sudafrica per quanto vanti una situazione privilegiata nel continente, esce da un passato pesante di apartheid. Le Township sono frutto di questa politica e sono state create, appunto, come aree abitative per i «non bianchi» che venivano banditi dalle città. A queste aree si sono aggiunti negli anni, soprattutto dopo la fine dell’apartheid nel 1994, i cosiddetti insediamenti informali. Per architettura informale intendiamo tutto ciò che non è progettato «a priori», tanto meno a tavolino, ma che risponde a una spontanea e naturale necessità di insediarsi e di abitare. Che siano realizzati con materiali di scarto, con legno, con lamiera o quant’altro, tali insediamenti svelano, oltre a quello di proteggersi, un altro fondamentale bisogno: rendere accogliente il proprio spazio abitativo.
Si parla dunque di abitare, nulla di strano, fondamentalmente una delle più nobili cause dell’architettura – se non la più autentica. Si parla di abitare in condizioni estreme per densità, mancanza di sicurezza, servizi e strutture: dunque un’emergenza abitativa. Una realtà che, se osservata a scala globale, è a tutt’oggi la più comune forma di «abitare contemporaneo». La maggior parte del pianeta vive appunto in baracche senza strutture igieniche, senza corrente o quasi, senza riscaldamento e senza spazio.
Urban-Think Tank (U-TT), fondato da Alfredo Brillembourg e Hubert Klumpner nel 1998 a Caracas, opera in queste realtà di insediamenti informali, occupandosi di ricerca e progettazione urbanistica e architettonica nelle più vaste metropoli mondiali. L’intervento a Torre David e la realizzazione della funivia metropolitana, entrambe nelle periferie di Caracas, sono tra i loro progetti più conosciuti e radicali che esprimono chiaramente l’area di interesse e l’approccio metodologico di U-TT. L’importanza dell’operato dello studio consiste principalmente nel riconoscere le zone «informali» urbane – dato il loro grande sviluppo e diffusione – come fenomeno contemporaneo da affrontare. Le sedi dello studio sono in diverse città, tra cui New York e Zurigo. Come spesso accade, la ricerca viene affiancata, implementata e talvolta resa possibile dall’insegnamento e dalle istituzioni universitarie. Dal 2007 alla Columbia University, Brillembourg e Klumpner approdano nel 2010 al Politecnico di Zurigo, dove insegnano Progettazione urbana e architettonica.
Il tema di questo semestre è la ricerca per una strategia di sviluppo e di riqualificazione di Masiphumelele, una township a sud di Città del Capo, che ha visto un intenso sviluppo della parte informale dal ’94 in poi e che, in aggiunta alle problematiche tipiche, sorge su un’area paludosa. Il fuoco è un altro tra i problemi più comuni e pericolosi: lo scorso novembre sono bruciate più di mille baracche. Le tematiche che gli studenti devono affrontare sono reali oltre che complesse. In collaborazione con la comunità, con diverse NGO e associazioni si cerca di trovare possibili soluzioni e strategie di intervento. Si spazia dalla pianificazione a grande scala per individuare delle alternative di insediamento nel territorio, fino a risposte architettoniche che possano migliorare la vita di tutti i giorni.
Il progettare in una situazione del genere si sviluppa sempre in modo dialettico: è impossibile applicare modelli a priori poiché i soggetti interessati sono molti e la comunità e gli abitanti hanno un ruolo fondamentale.
A Cape Town U-TT ha già in corso un progetto nella Township di Khayalitsha, seconda per dimensioni in tutto il Sudafrica. Si tratta di un prototipo di «baracca potenziata», sviluppato con la collaborazione dell’ NGO Ikhayalami, in cui gli spazi minimi abitativi assicurano una qualità decorosa di vita – servizi igienici inclusi, un’unità cucina e la scala interna. «Empower Shack», appunto, è un progetto pilota che ha come obiettivo, in quest’area, la ricostruzione, o meglio la sostituzione, di 68 unità. Costruito su due livelli, a differenza della maggior parte delle baracche di quest’area, tale prototipo occupa una porzione minore del lotto su cui sorge e permette quindi di avere un ulteriore spazio usufruibile – per coltivare o anche solo uno spazio protetto dalla strada. Al piano terra del prototipo sono previsti la cucina e i servizi, al piano superiore una stanza. I materiali usati per la costruzione sono prevalentemente legno, blocchi di cemento prefabbricato e lamiera grecata. Quest’ultima viene trattata con una vernice ignifuga, per evitare che in caso di incendio il fuoco si diffonda anche alle altre unità.
Lo sviluppo del quartiere è previsto per sostituzione delle singole unità e la costruzione di un Empower Shack avviene in circa due mesi. L’effetto domino che provoca la messa in opera di una tale costruzione pilota, è interessante. Il progetto può essere ripetuto ovunque.
Il Sudafrica con i suoi insediamenti informali lascia intravedere qualcosa di ancora autentico: l’architettura viene dopo. O meglio, viene, in seguito a necessità, abitative e relazionali. Viene dopo un bisogno, risponde a un problema. E questo ne rappresenta la sua potenza. Lavorare sull’urgenza ci riporta a riconoscere delle priorità basilari che a volte vediamo offuscate.
Se parliamo di coinvolgimento, di «engagement», non mi capitava da tempo di essere tra collaboratori, architetti, clienti e abitanti cosi entusiasti. Si ha la possibilità di rispondere a temi a problemi difficili e reali. Ti sembra di servire a qualcosa o meglio che l’architettura lo possa fare. E non parliamo di architettura accademica ma di architettura pedagogica. Un «empower shack» fa la differenza. Crea un precedente da cui imparare.
Il «presente» – quello occidentale – nella sua rapidità, se non fretta, si lascia afferrare e definire in modo sfuggente. E lavorare sull’oggi è una sfida precaria fatta di paradigmi che incorporano molti paradossi e compromessi. Dalla scala urbana a quella architettonica ci siamo circondati di un’infinità di doveri, di sistemi, di pratiche, di messa in sicurezza, di perenni tagli economici e di clienti viziati da accontentare. Il sistema – perdonate il termine – si dimostra cosi solido che difficilmente si fa mettere in discussione. Della nostra stabilità si riesce solo a scalfirne la superficie. Ciò che ci perdiamo spesso per strada è la rivoluzione dell’oggi, o meglio la rivoluzione che esso potrebbe determinare. La potenzialità che avrebbe riconoscere quello di cui abbiamo bisogno e sperimentare altri programmi. Parlando in modo astratto il nostro benessere è il nostro più grande limite. L’innovazione e la rivoluzione della nostra architettura si giocano sulla longevità e resilienza che questa sa dimostrare a fattori esterni. Si è refrattari a prendere in considerazione dei cambiamenti intrinseci soprattutto se sociali.
Il tema del «fronte» è particolarmente attuale e le aspettative intorno alla vicina biennale sono alte, ma non è per forza un fronte lontano sul quale bisogna agire, quanto una possibile revisione dei nostri bisogni.
Un ringraziamento speciale a Danny Wills e a Diego Ceresuela-Wiesmann.
Milano – Zurigo, 24 aprile 2016