di Mauro Sullam
Guadagnare come architetti in Italia è sempre più difficile: lo dicono i dati CRESME e si scorge nell’esperienza quotidiana di molti giovani progettisti precari. In Italia siamo troppi, subiamo la concorrenza di ingegneri e geometri, soffriamo un sistema di concorsi e appalti che emargina sistematicamente gli studi senza una solida offerta tecnica ed economica, favorendo invece chi negli anni precedenti alla crisi del 2008 aveva acquisito una posizione di rilievo.
Negli ultimi anni è fiorito un certo dissenso riguardo alle condizioni di lavoro e di retribuzione cui freelance, partite IVA, lavoratori autonomi in genere sono sottoposti: si sono moltiplicati gli studi a riguardo, le iniziative di sensibilizzazione sia in piazza che sui social media: grida di dolore e sussulti di rabbia si sono levati da questo settore della società, e questo borbottio diffuso costituisce la base implicitamente accettata di quasi tutti i discorsi fra colleghi, a prescindere dalle differenze economiche, culturali, sociali che li distanziano. Ed è così che al tavolo di un bar, o durante una conferenza sul tema, un architetto che dirige – per dire – quindici persone tra dipendenti (rarissimi), partite IVA e stagisti pare condividere le inquietudini di un trentenne che fa fatica a raggiungere i 20.000 euro di fatturato in un anno: i clienti non pagano, la qualità non esiste più, il fisco ci vessa eccetera.
Questa narrazione trasversale è la stessa che agisce quando i soci di uno studio avviato “assumono” giovani colleghi con retribuzioni che vanno da 0 a 800 euro mensili: perché in fondo abbiamo tutti gli stessi problemi, la crisi è crisi per tutti e di più non si può fare. A questo in alcuni casi si sostituisce o si affianca la retorica complementare del “lavoro di squadra”: uniti per vincere, insieme ce la faremo, la crisi seleziona i migliori, noi crediamo ancora nel sistema-paese e via dicendo. L’alleanza apparente fra dirigente e sottoposto, assieme allo spirito di sacrificio che viene instillato in chi sente la “vocazione” per l’architettura, sono strumenti fondamentali per tutelare i meccanismi di sfruttamento negli studi di progettazione. Sarebbe tuttavia troppo semplice pensare che i sottoposti si facciano blandamente irretire dalle retoriche persuasive dei dirigenti: molto spesso essi accettano la propria condizione di sfruttati perché la vedono come una possibile anticamera al proprio successo professionale. In altre parole, non si farebbero o non si faranno scrupoli a diventare a propria volta degli sfruttatori. Sognano di avere un grande studio, una quantità di commesse pubbliche e private, di costruire il proprio futuro di capo clan sudandosi il proprio presente da peones.
Naturalmente non tutti gli architetti aspirano a questo, e tutto il mio apprezzamento va a chi giorno dopo giorno sperimenta strade alternative, ma qui voglio escludere i casi più felici perché considero l’ambiguità del fante che vorrebbe farsi re una condizione che ci riguarda in molti, e che spesso non viene adeguatamente messa a fuoco né personalmente, né politicamente.
Questa condizione intermedia tra povero e ricco, tra esecutore e capo, tra proletario cognitivo e tecnico borghese, è fondamentale per capire il cortocircuito nel quale costantemente incorrono le rivendicazioni di categoria agitate dai giovani architetti (e da altri gruppi professionali simili). Non siamo più di fronte a una rivendicazione di classe proprio perché i giovani architetti precari appartengono simultaneamente a due classi, potenzialmente (e spesso nei fatti) nemiche, o quantomeno aspirano a una transizione rapida dall’una all’altra. Vengono formati fino all’università ma si ritrovano a operare in studi molto simili a fabbriche, faticano a pagare l’affitto ma devono vestirsi comme il faut, vengono definiti “liberi professionisti” ma trattati come operai o impiegati. Vanno naturalmente considerate le condizioni di partenza: appartenere a una famiglia più o meno abbiente, avere un background culturale solido o farraginoso, essere uomo o donna: sono molti gli elementi che dopano o rallentano la corsa di ognuno verso il successo.
Molti partiti e gruppi politici sono sorti negli ultimi anni per difendere la dignità vilipesa della “classe media”, cioè proprio di quella piccola-media borghesia che negli ultimi quarant’anni ha avuto accesso all’istruzione superiore e da cui provengono molti laureati, anche in architettura. Si va da Bernie Sanders negli USA al Movimento Cinque Stelle in Italia: dichiarato lo scioglimento di ogni legame con le teorie anti-sistema (comunismo, anarchia), essi adottano una visione inter-classista alla “We are the 99%” (perché diventa osceno dire che le classi esistono ancora) dalla quale escludono gli estremi (cioè sottoproletari e troppo poveri da un lato; oligarchi finanziari dall’altro); dovrebbe prevalere il buon senso di chi guadagna onestamente con il proprio lavoro, di chi conduce una vita non spartana ma sobria, di chi ama la proprietà ma diffida dei monopolî. È il sogno di una società equilibrata, mentre là fuori infuria la realtà di un capitalismo maturo divorato da guerre imperialistiche, distruzioni ambientali senza precedenti, fossati sociali ogni giorno più marcati.
Questi movimenti rappresentano sul terreno politico le contraddizioni che divorano i liberi professionisti precari, i free-lance, i creativi, i lavoratori tecnici e culturali, e spesso sono inaspettatamente contigui a idee di stampo corporativista-fascista perché, per mantenere l’equilibrio in una società che rischia di esplodere, possono fare gioco anche le retoriche nazionaliste-protezioniste (piccolo è bello; chiuso è sicuro), i richiami all’ordine (la gente onesta vuole solo lavorare), la solidarietà in nome della patria. Ed è così che questi movimenti diventano a volte il punto di ritrovo fra sinistre ecologiste e sedicenti “destre sociali”.
Ed eccoci al cortocircuito: si combatte disperatamente per sé stessi, per mantenere lo status quo o quel che ne resta. Non si possono più mettere in discussione i meccanismi che in continuazione generano sfruttamento, povertà, precarietà, e cioè non si può più mettere in discussione il capitalismo stesso. Le classi non esistono più (resta solo da avvisare qualche miliardo di operai) e diventa illecito includere nelle proprie rivendicazioni politiche una categoria cui non apparteniamo. Possiamo difendere solo quelli che sono (o meglio: sembrano) uguali a noi: perché fanno lo stesso lavoro, perché vivono nello stesso posto, perché sono brave persone come noi. Tuttavia ben presto ci rendiamo conto di non riuscire ad arginare la piena e quindi: si salvi chi può! Se devo fregare il mio collega per assicurarmi una posizione migliore, se da sfruttato devo iniziare a sfruttare, se devo salvarmi dalle sabbie mobili della miseria, ogni mezzo è lecito. All’uopo, si farà ricorso a quella sicumera anti-casta con la quale celare, quando serve, l’ascia insanguinata. Svanisce ogni forma di solidarietà vera.
In architettura, questo si traduce nella continua oscillazione fra la difesa di forme spaziali svuotate di senso sociale (in primis il modello dell’appartamento borghese che sempre meno persone possono permettersi e che spesso diventa un semplice oggetto di compra-vendite fra fondi immobiliari) e l’affermazione di nuovi dispositivi di rapina assoluta del territorio, dalle grandi sedi di banche alle gated communities dotate di ogni comfort, armate e sorvegliate più di caserme militari. L’unico filone di ricerca radicalmente alternativo ma istituzionalmente promosso è quello delle architetture di emergenza per contesti di povertà o per fare fronte a disastri ambientali, forse perché in fondo non intacca il movimento sinusoidale della rendita immobiliare che ho descritto sopra: semplicemente vi si affianca e, in un certo senso, lo completa.
Da quanto ho scritto finora può sembrare che ogni sforzo migliorativo sia vano e ogni rivendicazione di diritti sia inutile o meschina: non è così. Semplicemente mi premeva inquadrare il problema, anche in termini provocatori, perché ho sempre pensato che le rivendicazioni dei propri diritti, e una condotta professionale che quotidianamente si misuri su problemi pratici cercando soluzioni corrette, possano germogliare solo su un terreno politicamente ricco ed entro orizzonti vasti, oserei dire planetari. Non c’è una ricetta, non ci sono proporzioni prestabilite fra pratica quotidiana e visione del mondo: è una dialettica che si ricalibra a ogni occasione, dentro ognuno di noi, nessuno escluso. In fondo la nostra statura intellettuale si misura nello sforzo quotidiano che possiamo fare per renderci coscienti di questa dialettica, per trasmetterla, per socializzarla.
Rivendicare i diritti dei liberi professionisti è una battaglia giusta, ma può essere inquadrata in una visione del mondo capace di mettere in discussione le origini delle disparità che stiamo contrastando: così sapremo collocarci coscientemente (nella piramide sociale siamo meno favoriti di chi ci sovrasta ma molto di più di chi sovrastiamo) e potremo scorgere nelle nostre stesse scelte delle conseguenze insidiose, una coazione a ripetere il principio di sfruttamento del lavoro e del territorio che pensavamo di combattere.
Penso che coniugare una visione rivoluzionaria – nel senso della sua avversione a ogni forma di sfruttamento dell’uomo sull’uomo e dell’uomo sull’ambiente – a una pratica costruttiva – nel senso della sua capacità di proporre soluzioni tecnicamente e formalmente precise a quella visione – possa essere un modo per innescare un percorso di rinnovamento radicale nel lavoro dell’architetto e, in fondo, in ogni altro lavoro sociale. Vedo l’energia di questo motore a scoppio propagarsi in ogni ambito, dalla proposta didattica dentro e fuori dalle università fino alle scelte che facciamo, giorno dopo giorno, all’interno del nostro studio professionale e nei rapporti con la committenza, con le istituzioni, con i colleghi, con tutti.
Milano, 3 giugno 2016