di Marco Biraghi
La mostra allestita nelle sale di Palazzo Reale a Milano, dal 24 giugno 2016 al 22 gennaio 2017, dedicata alle opere di Maurits Cornelis Escher, il celebre incisore e grafico olandese, vale la pena di essere vista. Attraverso circa 200 tra xilografie, litografie e disegni, l’arte di Escher è illustrata mettendo in luce le sue componenti matematiche, geometriche, prospettiche, illusionistiche, percettive. I curatori della mostra, Marco Bussagli e Federico Giudiceandrea, non mancano di annodare qualche filo tra l’opera di Escher e quella di alcuni suoi predecessori: ad esempio istituiscono relazioni (più congetturali che altro, in verità) con le tecniche di suddivisione e ripetizione geometriche del futurismo italiano (in particolar modo di Giacomo Balla) e con le tecniche decorative di divisione regolare del piano utilizzate all’inizio del Novecento da Kolo Moser, nell’ambito della Wiener Secession. Ma soprattutto sottolineano il ruolo rivestito nella formazione di Escher da parte di Samuel Jessurun de Mesquita, a sua volta grafico e incisore olandese.
Ciò che invece i curatori mancano del tutto di fare è di ricostruire l’ambiente culturale nel quale si inserisce Jessurun de Mesquita, maestro di Escher: una mancanza che indirettamente “condanna” quest’ultimo – ancora una volta – a una lettura abbastanza scontata, tutta virata sul versante della pura “invenzione” e della “genialità” individuale, che ha finito per fare di lui, da alcuni anni a questa parte, uno dei più popolari “eroi” dell’arte da affiche, da copertine di libri e di dischi, da videogiochi. Una lettura che certo incontra il favore di un vasto pubblico, rendendo la sua opera fruibile, oltreché sempre sorprendente e divertente agli occhi di grandi e piccini, ma che tende a privarla di quello “spessore” che invece innegabilmente possiede.
È proprio la figura di Jessurun de Mesquita la chiave per penetrare nelle ragioni profonde del labirinto tridimensionale escheriano. Ebreo di origini portoghesi nato ad Amsterdam, Jessurun de Mesquita, dopo essere stato respinto dalla Rijksakademie della sua città nei primi anni ottanta dell’Ottocento, lavora per due anni presso lo studio di Willem Springer, per decenni architetto responsabile della municipalità di Amsterdam. Qui egli si dedica soprattutto allo studio degli ornamenti. Springer, così come i suoi figli Johannes Ludovicus e Johannes Petrus, è profondamente legato all’associazione “Architectura et Amicitia” (Jan ne è segretario dal 1871 e presidente tra il 1872 e il 1892, mentre Piet nel 1884 dà un significativo contribuito alle celebrazioni dell’anniversario del trentennale dalla fondazione dell’associazione). Lo scopo di “Architectura et Amicitia” è quello di riunire architetti e persone provenienti da settori ad essa collegati, mettendoli in contatto tra loro, anche attraverso l’organizzazione di conferenze, mostre e viaggi. Organo di informazione e diffusione della società sono diverse riviste, le principali delle quali, nel corso del tempo, rispondono ai titoli di “Architectura” (1893-1926) e “Wendingen” (1918-31).
Nella prima parte della sua vita “Architectura et Amicitia” presenta i tratti tipici di una confraternita, all’interno della quale non a caso molti degli architetti presenti aderiscono alla massoneria. Poi progressivamente – in particolar modo sotto l’influenza di Johannes Ludovicus Mattheus Lauweriks e di Karel Petrus Cornelis de Bazel, giovani architetti collaboratori dello studio di Petrus Josephus Hubertus Cuypers (autore, tra le molte altre opere, del Rijksmuseum e della Centraal Station di Amsterdam), “Architectura et Amicitia” compie una svolta in direzione teosofica. Decisivo in tal senso è il viaggio compiuto nel 1893 da Lauweriks e de Bazel a Londra, dove si avvicinano alle idee di William Morris e di Madame Blavatsky (fondatrice della Theosophical Society), oltreché allo studio dell’arte orientale osservata nei musei londinesi. Al loro ritorno ad Amsterdam Lauweriks e de Bazel, l’anno successivo, diventano membri della Società Teosofica Olandese.
Presso lo studio di Cuypers lavora in quel periodo anche Jan Hessel de Groot, un architetto e teorico anch’egli legato agli ambienti di “Architectura et Amicitia”. Nel 1896 de Groot dà alle stampe, insieme alla sorella Jacoba, un libretto – subito recensito da Lauweriks – in cui si pongono i fondamenti di un’estetica geometrica basata sulla teoria delle proporzioni: Driehoeken bij Ontwerpen van Ornament (I triangoli nella progettazione dell’ornamento). Si tratta soltanto del primo di un gran numero di testi che de Groot pubblicherà negli anni successivi, fino al 1932, anno della sua morte. L’insegnamento contenuto nel volume citato è rivolto a disegnatori armati di squadre a 45° e a 60°, ed è finalizzato alla costruzione di tracciati regolatori in grado di dare unità al tutto – sia che si tratti di progetti architettonici sia di ornamenti. Quella di de Groot è la ricerca di una “sistematica progettuale” basata sui moduli compositivi proporzionali delle civiltà antiche, un sapere dimenticato ma non per questo scomparso, secondo l’autore.
In quegli anni – va ricordato – anche Padre Desiderius Lenz, monaco benedettino fondatore della scuola d’arte di Beuron, nel Baden-Württemberg, in Germania, si concentra nell’applicazione di una geometria rigorosa all’arte quale manifestazione di un sapere superiore, che eserciterà una forte influenza – oltreché su artisti della corrente Nabis come Maurice Denis – proprio su Lauweriks. Si tratta della ricerca di un’armonia delle forme attraverso una costruzione geometrica e proporzionale che Lenz considera un “canone divino”.
Dotato di un simile fondamento teologico e teosofico per i propri studi sulle griglie geometriche, tra il 1897 e il 1900 Lauweriks terrà, nella sede di “Architectura et Amicitia” ad Amsterdam, insieme a de Basel e a Herman Walenkamp, architetto, grafico e teosofo a sua volta, un corso di disegno ornamentale basato su schemi mistico-matematici (il cosiddetto Vahâna-Kursus, parola che in sanscrito significa “veicolo”). E questo insegnamento esoterico-iniziatico lo stesso Lauweriks lo porterà nel 1904 alla Scuola di Architettura e Arti Applicate di Haarlem, prima di essere chiamato alla Scuola di Arti Applicate di Düsseldorf dal suo direttore Peter Behrens (le cui opere degli anni successivi attestano l’influsso esercitato su di loro da quelle dell’architetto olandese).
È proprio alla Scuola di Architettura e Arti Applicate di Haarlem che Samuel Jessurun de Mesquita insegna incisione dal 1902 al 1926, e dove, tra il 1919 e 1922, studia Escher. Gli intrecci di Jessurun de Mesquita con la cultura qui rievocata appaiono evidenti. Anche dopo la prima guerra mondiale (nel corso della quale l’Olanda rimane neutrale), egli continua a intrattenere rapporti con gli ambienti architettonici legati a “Architectura et Amicitia”; anzi, è tra i più assidui collaboratori della già citata rivista “Wendingen”, diretta da Hendricus Theodorus Wijdeveld: in molte circostanze ne disegna le copertine (in svariati numeri delle annate 1918, 1923, 1927, 1928 e 1929), oltre a pubblicarvi numerosi disegni e incisioni e a vedersi interamente dedicati due fascicoli, nel 1925 e nel 1931. “Wendingen” è l’ideale luogo di convergenza delle due anime dell’arte e dell’architettura olandese dei primi due decenni del XX secolo: vi scrivono e collaborano, tra i moltissimi altri, Hendrik Petrus Berlage, il padre dell’architettura moderna olandese e fedele seguace dei sistemi modulari di de Groot; Piet Mondrian, il padre dell’arte neoplasticista, anch’egli profondamente interessato alla teosofia; Michel de Klerk, figura basilare della Scuola di Amsterdam; Theo van Doesburg, architetto, artista e fondatore della rivista e del movimento “De Stijl”.
Nella rivista “Wendingen” convivono perfettamente pacificati astrazione e figurazione, tradizioni e saperi antichissimi e modernizzazione. Gli stessi elementi che si ritrovano nelle incisioni, a volte apparentemente “leggere” e “svagate”, ma sempre immancabilmente stupefacenti, di Maurits Cornelis Escher. Quanto di questa cultura egli abbia conosciuto e usufruito non è facile affermarlo con certezza. Ma di certo la sua scienza matematico-geometrica non è frutto di intuizioni puramente personali o del caso, così come non lo è la sua capacità illusionistica. Al di là dell’abilità del disegno e della fantasia nel creare “situazioni” visive surreali, l’arte di Escher si basa su una profonda conoscenza e sull’applicazione di griglie modulari opportunamente deformate e su sapienti sovvertimenti delle regole prospettiche, tutti campi nei quali il suo maestro Jessurun de Mesquita poteva almeno indicargli la strada, guidato a sua volta da maestri come de Groot, Lenz, Lauweriks.
Scrive quest’ultimo in un saggio dal titolo Het nut en doel der kunst (L’utilità e lo scopo dell’arte), pubblicato nel 1907 nella rivista “Theosophia”: «L’arte è una rappresentazione del dramma cosmico, in cui in immagini avvincenti, in forma simbolica, sono proposti i fatti cosmici in azioni eloquenti, profonde, convincenti. Il racconto cosmico, il dramma cosmico, l’immagine cosmica, la pittura cosmica, l’architettura cosmica, riproduce l’intero cosmo riunito insieme in una veduta unica, come una piccola fotografia riproduce l’intero quadro».
La corrispondenza tra piccolo e grande, tra parte e intero, tra microcosmo e macrocosmo, è alla base della dottrina sapienziale e teosofica di questi teorici, artisti e architetti, esattamente come lo è di quella di Escher. Ed è forse soltanto un minuscolo indizio il fatto che a Berend George Escher, geologo e fratello di Maurits Cornelis, sia affidata la redazione del testo del fascicolo 11/12 del 1924 di “Wendingen” dedicato ai cristalli; lo stesso tema che occuperà una parte così rilevante nelle incisioni dell’Escher che conosciamo di più. Un indizio minuscolo, quasi impercettibile, al quale forse però bisognerebbe guardare con maggiore attenzione, come quei dettagli apparentemente insignificanti delle sue incisioni che si rivelano tanto importanti per la loro comprensione.
4 luglio 2016