Tra intenzione e interpretazione: ingegno costruttivo e impegno sociale nell’architettura di Solano Benítez
Intervista e appendice critica di Stefano Passamonti.
« È la maniera di costruire, non la forma, ciò che mi interessa »
Il Paraguay è uno dei paesi meno sviluppati del subcontinente americano, con un passato abbastanza travagliato ed un profilo continentale tuttora periferico. Un palinsesto complesso, nel quale, mentre le città appaiono sommerse da una natura vigorosa ed esuberante, esse sembrano espandersi spontaneamente, senza alcun piano, con edifici troppo alti per essere parte del reticolo coloniale e poco elevati per essere assimilate ad una qualunque downtown. Uno scenario in bilico fra artificialità senza forma e natura selvaggia. Uno sfondo non troppo diverso da quello visto da Le Corbusier, nei suoi tour sudamericani.
La ricerca architettonica di Solano Benitez, elaborata in questo contesto geo-politico ed economico così problematico, con oggettive difficoltà operative e lontano dai processi produttivi dettati dalla globalizzazione, appare sorprendente per la sua qualità. Benitez usa materiali semplici e reperibili localmente, che gli consentono di raggiungere forme espressive di grande impatto e dall’intensa carica morale. La povertà dei mezzi utilizzati risulta inversamente proporzionale alle emozioni che l’architettura riesce a trasmettere.
Soluzioni innovative, esperimenti tecnici e controllo dei costi di costruzione, sono i tratti fondamentali dell’opera di Benitez, in una idea di architettura più legata all’uso che si fa della materia che a quello della sua immagine finale. Più attenta ai problemi sociali della sua terra che alla forma in se. Un’architettura attenta, partecipe delle problematiche sociali, multidisciplinare e nei cui esiti prevale sempre la natura infrastrutturale e culturale del luogo. Un’architettura in cui la geografia, più che la storia, detta le condizioni fondamentali. Il paesaggio come elemento dinamico in continua trasformazione, più che le città, la condiziona. Un’architettura ingegnosa, essenziale, disadorna, che è contemporanea impiegando materie prime “primitive”. Esperienze costruttive dove le limitazioni si tramutano in valori. Un’architettura del fare, del conseguire con ricorsi tecnologici e risorse finanziarie ridotte all’osso. Una progettazione che impiega materiali poveri ma che è ricchissima nel disegno, dove scompaiono la leziosità e la ripetitività delle forme vuote della produzione contemporanea e nella quale torna ad essere essenziale la costruzione del territorio. Il mattone, materia prima della filiera edilizia paraguaiana, viene eletto come matrice costruttiva e compositiva di una sintassi costruttiva che vede l’architettura più come problema sociale che spaziale.
Quella di Benitez è una pratica della disciplina che non si limita a risolvere il programma funzionale ma che si sforza di interrogarsi sulle problematiche della vita umana. In tutto questo sforzo intellettuale e tecnico non vi è nulla della fotogenia e del perfezionismo a cui ci siamo assuefatti negli ultimi anni. Al contrario, si tratta di manufatti sbavati, imperfetti ma assolutamente autentici, manifestazioni materiali della condizione storica ed economica di un paese ancora alla ricerca della propria via verso modernità.
Il nostro incontro con Solano avviene al primo piano della Fau Usp, la storica Facoltà di Architettura ed Urbanistica dell’Università di San Paolo del Brasile. L’edificio, progettato da Vilanova Artigas, sublime elogio alla continuità spaziale fra spazio pubblico e didattico, tempio dell’apprendimento, ci accoglie in tutta la sua espressività abrasiva durante i giorni del convegno internazionale «Latitudes», organizzato da Angelo Bucci in collaborazione con la UT di Austin.
L’architettura può essere ancora considerata quella forma di conoscenza capace di trasformare il territorio per consentire la vita umana ?
Io credo che il nostro mandato disciplinare sia quello di occuparsi dell’«abitabilità» degli esseri in quanto umani. Il concetto di abitabilità è molto ampio e complesso. Esso ha a che fare con la maniera nella quale noi viviamo e ci proteggiamo. Il territorio, in questo senso, può essere inteso come materia viva al nostro servizio. Spesso però noi, con il nostro agire sregolato, non ce ne prendiamo cura abbastanza e non lo proteggiamo.
Dunque, se da un lato, il territorio dell’abitabilità è il campo più conosciuto della disciplina o, per lo meno, quello che negli ultimi anni si è tentato di affrontare ed esplorare, dall’altro, il mandato più importante della disciplina rimane la costruzione dell’Essere in quanto Umano.
Comprendere la qualità di quello che rappresenta l’umanità, nella condizione secondo la quale noi siamo uguali a qualunque altra materia viva, è essenziale per la pratica disciplinare dell’architettura. Un concetto spesso riassunto nel pensiero filosofico contemporaneo. Noi siamo esseri immaginari. Gli umani si avvicinano per simpatia, si respingono per antipatia e interagiscono per empatia. Come tutti gli esseri viventi, siamo coscienti delle condizioni che determinano il nostro carattere di individuo. In realtà, tutti gli umani sono entità immaginarie, perché coscienti della propria condizione minima costituente che è, di fatto, duale. Il minimo umano è due. L’umanità comincia nel momento in cui immaginiamo che, in realtà, siamo “noi-altri”; e il “noi-altri” si costituisce nel momento in cui, prendendoci cura di noi stessi, ci prendiamo automaticamente cura degli altri, con la necessità che tutti stiano bene perché tutto questo avvenga. Questa costruzione immaginaria che minimizza a due, si estende a chiunque, a tutti “noi-altri” esseri umani. Al di sotto di due individui, si innescherebbe un processo di imbarbarimento, una involuzione che ci riporterebbe ad assomigliare a delle scimmie. Solo dopo aver compreso che la sensibilità umana può crescere fino a raggiungere ed abbracciare tutta l’umanità, solo a quel punto, attraverso la sensibilità di ognuno, sapremo di esistere anche negli altri. Questo trasferimento di noi stessi negli altri, è la costruzione più importante nel momento in cui si affronta l’individualismo esagerato che oggi caratterizza in maniera incontrastata ogni atto di modificazione del territorio.
Come singoli individui, gli uomini non hanno motivo di esistere, se non come esseri umani all’interno di un collettivo sociale e la nostra missione è occuparci dell’«Abitabilità» di tutti gli uomini sul pianeta terra. Il che non significa solo dare una casa ad ognuno, ma soprattutto, occuparsi della costruzione del suo intorno. Per una qualità di vita migliore, per un uomo che – come materia viva – mangia, beve e respira. Che vive e non, semplicemente, sopravvive.
Si tratta di un concetto molto più esteso, che valica la semplice idea iniziale di manipolatori del nostro territorio attraverso un pensiero determinato. Abitabilità è un concetto ampio, che aspira a proteggere la vita di tutte le persone. E con ciò, credo che la costruzione più urgente sia quella dell’essere umano; il tornare a comprendere che siamo una cosa unica con il tutto e che ogni azione fatta da un singolo debba portare beneficio a tutti. Dunque, questo vincolo virtuoso si produce solo agendo, nella misura in cui, nel costruirlo, ci si completi stando meglio.
È una vocazione della collettività…
Assolutamente. Per esempio, la filosofa Hannah Arendt, pur sostenendo la piena coscienza della nostra finitezza e la certezza della morte, sosteneva il concetto secondo il quale noi non nasciamo per morire ma per continuare. Questo ci fa portatori di una continuità nel tempo, alla base della quale dobbiamo comprendere che ognuno di noi è il portatore di una materia viva, sorta precedentemente e destinata a permanere. Il concetto di Abitabilità non ha solo a che fare con l’identificazione delle questioni che riguardano noi oggi ma, anzi, è una costruzione che coinvolge tutti, i nostri predecessori quanto i nostri successori.
In questo senso come dovrebbe essere la città per tutti?
La città è la massima opera dell’essere umano. Il collettivo per eccellenza. È l’opera più profonda di realizzazione dell’uomo, la più completa, la più totalizzante, quella che incorpora la maggior quantità di risorse e di qualità.
Noi viviamo in una società che si vincola in molte forme. Viviamo dominati dalla tecnologia, con un modello di sviluppo che non ha precedenti. Potremmo paradossalmente stare qui ed essere contemporaneamente connessi, attraverso internet, con coloro che si trovano ben altrove e, entrambi, poter essere – a nostra volta – connessi con satelliti esterni che non sapevamo neppure esistessero. O ancora, essere collegati ad uno dei tanti social network ed interagire con qualcun altro che si trova agli antipodi, lontanissimo e magari dalla parte opposta del globo.
Credo che questo concetto di città – come la massima espressione dei luoghi in cui l’uomo convive – sia un dato di fatto reale ma anche una grande utopia: un’idea portata alle estreme conseguenze è, un po’ come avviene per la poesia, una forma per interrogarsi a cosa serva il mondo. Se io compio un passo e poi un altro, verso l’orizzonte; poi un altro passo ed un altro ancora… serve proprio a questo: a camminare. Poiché, probabilmente, mai arriveremo a questo orizzonte tanto desiderato, però abbiamo l’obbligo di andare avanti, percorrendo e arricchendo il nostro “andare”.
Questa utopia non è altro che il desiderio della città, una parte del territorio eletta all’incontro fraterno. Allora, non so se tutto questo sia “territoriale”. Non so se, quando ci si reca nello spazio cosmico, lo si faccia per cercare un luogo dove vivere meglio. Nello stesso modo nel quale i veneziani o i popoli amazzoni inventarono la città su palafitte, vivendo con e nell’acqua, trasformando la materia che li circondava e permettendo lo sviluppo dell’Abitabilità di cui parliamo, di come mangiano, di come bevono…
In che dimensione la città differisce dalla natura?
La città è l’opposto della natura. La natura è un albero che cresce nella selva. Secondo la legge per la quale noi fummo creati, che si fonde con l’origine dell’universo, questo albero è molto differente da un albero che noi piantiamo ogni quattro o cinque metri in una città artificiale. Lo stesso albero dunque, può essere tanto il “frutto” di un artificio, quanto della natura. Dunque, tutto l’operato umano differisce dal fatto naturale. La natura viene costantemente trasformata dall’uomo, che la utilizza come base per la ricerca del proprio benessere. In questo senso, tali condizioni sono di fatto antitetiche: non vi è analogia fra natura e città o tra artificio e natura. Credo che la differenza sia assoluta e sostanziale. Ma senza l’una non esisterebbe l’altra. Noi apprendemmo a costruire per proteggerci. Per salvaguardare la nostra vita realizzammo una costruzione che comunemente chiamammo casa. E quando scoprimmo che insegnare ai bambini era molto importante, allora, costruimmo una casa per l’apprendimento che chiamammo scuola; o subito dopo, quando costruimmo una casa per proteggere e curare le persone inferme, questa casa la chiamammo ospedale. Facemmo insomma tante e diverse tipologie di case, combattendo un “nemico” iniziale che era la natura ostile che, con la sua forza inarrestabile, non garantisce le condizioni di vita di cui abbiamo bisogno. Però ora la forza dell’uomo è lì, sconfinata, piena di risorse ma senza senso. L’unica possibilità, l’unica via percorribile per sopravvivere e per far sì che la natura resista al nostro potere, è quella di essere in grado di costruirle una “casa”. Una costruzione che permetta anche alla natura di continuare ad esistere, rinnovarsi e beneficiarci di tutte quelle risorse di cui necessitiamo. Senza questa costruzione non sarà possibile che essa si conservi e, di conseguenza, non sarà possibile neppure per noi sopravvivere. Molta gente parla di un un momento “ecologico” nell’ambito del quale “salvare” il pianeta dal disastro. Il pianeta si è salvato autonomamente già numerosissime volte. Si sono susseguite già numerosi disastri a cui seguirono ecatombi che travolsero tutto, dalle piante agli animali. Il pianeta, di fatto, è capace di rigenerarsi. Siamo tutti perfettamente coscienza del fatto che esso si possa rigenerare costantemente. Quello di cui non ci curiamo è la salvaguardia del pianeta e del suo prevalere, comunque, su nostro essere umani. Non possiamo pensare di prevalere sulla forza della natura. Dobbiamo, invece, imparare a sfruttare opportunamente ciò che essa ci offre. In caso contrario, quello che accadrà se non apprenderemo ad essere umani, se non apprenderemo a rintracciare un nuovo ordine mondiale che ci permetta di vivere uniti, con determinate regole di protezione dell’acqua, dell’aria, della biodiversità, etc, sarà una vita molto difficile.
Per lei quali sono le differenze sostanziali fra la città sudamericana ed europea?
Sono estremamente differenti.
C’è da capire che quella europea è una città formatasi da due o tre millenni, uno strato sopra l’altro, con società che hanno subito regimi, generato rivoluzioni e cambiato assetto politico. Tutto, in un processo nel quale la popolazione appariva e scompariva ripetutamente e con un continuo processo di raffinamento.
Io credo che qui in America Latina, quelle che oggi conosciamo come città, risalgono ad un atto fondativo da attribuire a circa cinque generazioni, ovvero, qualcosa come 500 anni di storia che, non a caso, coincidono con la scoperta dell’America. Le numerose società che oggi conosciamo, apparvero in seguito ad un radicale cambio delle condizioni di vita, legate ad una sempre maggiore longevità, oltre che dovute ad una sostanziale riduzione della mortalità infantile. Questo fece sì che la popolazione mondiale crescesse costantemente e che le nostre città latinoamericane – nate, quindi, proprio in seguito a questi processi di radicale mutamento demografico sovralocale – registrassero un aumento della propria dimensione con molta più forza ed eloquenza rispetto a quelle europee. Queste ultime, a mio avviso, ebbero costantemente una struttura iniziale alla quale riferirsi e secondo la quale impostare un modello di crescita, evidentemente più regolato rispetto ai nostri esempi di città. Per noi, al contrario, tutto risultava una radicale, ma soprattutto, estrema novità. La cancellazione repentina di secoli di storia umana e l’imposizione dall’alto di un modello esterno che non ci apparteneva, rese tutto molto più difficile e complesso.
Rafael Iglesia sostiene che noi sudamericani abbiamo vissuto una condizione più geografica che storica, che l’europeo è storico e che l’americano è geografico. L’uomo europeo ha una coscienza decisamente più solida del fatto storico e di un contesto che si è andato realizzando secondo un processo di costante accumulazione di conoscenza. La vita europea rimane, in qualche modo, estremamente legata agli eventi passati; non è esattamente così nel caso americano, dove la vita dipende dalle necessità più stringenti, senza far necessariamente riferimento al passato. Questo, tuttavia, non vuol dire non avere coscienza storica. Il nostro recente passato moderno, sta diventando la nostra tradizione. Intanto, la nostra vita rimane determinata e regolata, in larga parte, da tutto ciò che riguarda strettamente la terra, l’acqua, l’aria ed il fuoco.
Noi ci troviamo continuamente di fronte al valore del fatto-atto storico e all’importanza che ha la storia dall’uomo. Riferendosi alle differenze che esistono qui in Sud America, potremmo affermare che la nostra storia appare più chiara…
No! Non è questo il punto.
Si tratta di altro approccio, nel quale si danno priorità ad altre cose. Questo non è un punto di vista molto corretto. Noi esistiamo, di fatto, da quando esistete voi.
Se, ad esempio, analizzassimo una città precolombiana che fu, per così dire, attaccata da un altro tipo di civilizzazione, apparsa repentinamente ed imposta con la forza, di fatto, stiamo narrando un’altra storia. Nel processo che ebbe atto, noi ci privammo – e anche fummo privati – della nostra cultura, al posto della quale ne apparve una diversa ed imperante: una cultura europea “migliore”. Questa cultura imposta, in qualche modo, si presentò come un fatto culturale distinto e allo stesso tempo totalizzante, come ad affermare che quella maniera fosse la più corretta e, come tale, dovesse essere impiantata anche qui, e che tutte le altre forme di vita che esistevano dovessero essere eliminate o ridotte.
Volendo parlare di fatti e personaggi noti alla cultura popolare sudamericana, anche qui in Brasile, potremmo allora citare la storia di Maria Bonita e Lampião. Tutto il mondo sa chi è Robin Hood ma nessuno al mondo sa chi fu Lampião. Tutto il mondo conosce Giovanna D’arco e nessuno sa nulla di Maria Bonita. In Europa e nel mondo tutti sanno del Mostro di Lochness, ma al contrario, il Chupacabra non è conosciuto in Europa. E ancora, per rimanere in Brasile, la Perna Cabelluda, un strana gamba assassina che fa strage di persone nei villaggi, sono parte attiva di un mito della storia così come il Jinete sin Cabeza o Dracula, qualunque fosse stata la storia d’amore, d’avventura, etc. Solo che non furono mai diffuse e non lo sono tuttora, come invece è successo per quelle europee.
In fondo, però, la vita umana rimane la stessa, sia che si parli di Europa che di America. Non si tratta, a mio avviso, di demarcarne le differenze perché è chiaro che sussistono differenze evidenti e sostanziali. La cosa importante è quella di rintracciare e codificare le somiglianze. Individuando le similitudini, potremmo finalmente costruire assieme un’esistenza comune migliore. Analizzando solo le differenze e facendo valere solo le divergenze, non facilitiamo il processo di intendimento fra i popoli e le culture. Con questa chiave di lettura possiamo capire, dunque, perché un brasiliano possa essere un indigeno, così come un discendente dell’impero lusitano, o possa aver avuto una madre di colore di discendenza africana, etc. In tutto ciò, non si tratta affatto di una “riduzione” ma, al contrario, di una ricchissima matrice che è molto più complessa, il cui potenziale risiede proprio nella diversità e nello scambio.
Al di là del confine amministrativo tra Paraguay, Brasile ed Argentina, quali sono le similitudini vincolate alle tecniche costruttive e ad una radice popolare che, tuttavia, mantiene l’insieme come una macroregione?
Prendiamo, ad esempio, un materiale come il mattone. Il mattone è brasiliano? Argentino? Londinese? Romano? Assiro? Di quale mattone stiamo parlando?
Quando si tenta di indagare una tecnica costruttiva così legata al suo elemento generatore, come nel caso del mattone, io credo che la grande sfida sia arrivare ad un grado di innovazione inedito e mai raggiunto prima. In questo caso, dunque, ci si può definire assiri? Romani? Oppure, brasiliani, argentini, uruguaiani, colombiani?
Credo che l’ammettere e il categorizzare le persone soltanto sulla base di una struttura conoscitiva basata sulla sola appartenenza ad una determinata area geografica di un luogo o, peggio, di una nazione, sia una grande menzogna. Io affronto gli stessi problemi che affronta un architetto italiano e come lui, ho bisogno di lavorare la materia per poter riuscire a salvaguardare la vita umana. Dunque, io posso farlo con 3000 anni di storia alle spalle, su come si dispongono i mattoni un sopra l’altro, in maniera corretta e in una forma bellissima e, allo stesso modo, farlo oggi con un progresso tecnologico globale che mi permetta di manipolare la stessa terra cotta.
Si tratta ormai non più semplicemente di una matrice culturale, bensì, di una tecnologica. Dunque, stando così le cose, a chi assomigliamo di più? Ai romani o ai brasiliani? Agli argentini o ai colombiani? Magari agli assiri? Oppure, alla massa che chiede i suoi vasi fatti di mattoni composti di una argilla proveniente da Marte?
Stiamo lavorando per il futuro o per il passato? O per una regione geografica? Per chi? Sostengo, allora, che noi lavoriamo innanzitutto per l’essere umano, per la continuità della vita. Dunque, rendere omaggio al nostro passato, alle nostre condizioni storiche, significa riconoscerne i successivi passaggi temporali, fatti di tecniche che si sono andate perfezionando, allo scopo di trovare le soluzioni migliori per un vivere migliore, in determinati contesti. Però, la cosa più importante oggi è produrre una condizione di sviluppo attuale, perché siamo già dotati di un calcestruzzo più performante, di acciai migliori, di fibra di carbonio, insomma, abbiamo una infinità di risorse che a breve diventeranno di uso quotidiano (se non lo sono già). Ad esempio, quando si pensa a combinare mattoni e fibra di carbonio, questa tecnica a chi potrebbe appartenere? Questo universo di chi è culturalmente? È un universo americano o un universo europeo? Che tipo di universo? È il territorio nel quale noi fondiamo una nuova relazione con la società, intendendo che l’erudizione – intesa come costante riferimento ad un pensiero storico accumulato – ha evidentemente perso la propria importanza – perché nulla, oggi, può essere più erudito di “Mr.Google”. Dunque avere memoria, ricordare un passato, è tutto qui [imita una tastiera, ndr] e già non ha più il significato di un tempo. Quale è il pregio di possedere una conoscenza nozionistica vastissima, se già è tutto lì pronto all’uso. Il problema semmai è la selezione critica delle innumerevoli informazioni e risorse a disposizione. Ma quello che davvero è importante oggi è determinare una nuova relazione con la società. E quale? è una relazione di apporto o di dipendenza? Non si tratta più di una logica secondo la quale io, possessore di un sapere determinato, lo scambio o lo vendo a qualcun altro. Ci troviamo in una condizione nella quale tutto il mondo ha accesso a qualunque tipo di informazione, di forma quasi istantanea attraverso internet. Allora quale è la relazione interessante? Quella nella quale io posso trasmetterti qualcosa che non esiste ancora o nella quale poter usare la mia intelligenza come un dono che ci permette di stare uniti e stare meglio, sfruttando questa sconfinata banca dati?
Il momento in cui si fa l’architettura, nel quale vengono convocati sia il sapere che l’esperienza, è una conversazione sulla sapienza tecnica accumulata, in quanto uniti da un desiderio condiviso di migliorare la nostra esistenza. Dunque, è una conversazione attorno al possibile, in una riflessione che parte dal passato e che tende al futuro, incontrando in questo pianificare e conversare la condizione per poter costruire l’architettura.
Senza tutto questo, senza il conversare per condividere, non ha alcuna importanza ricordare di quale materiale si tratti, per quale dimensione e con quale capacità strutturale. Ciò che conta davvero è il valore della conversazione, della comunicazione e condivisione di un sapere universale. Il poter intendere che tutto è fatto per poter essere discusso.
Se una colonna è così, fatta in un certo modo, è perché rappresenta, innanzitutto, materia di conversazione. Possiamo costruirla così, fatta in questo modo [indica un pilastro interno circolare della FAU, ndr], oppure, poter optare per qualcosa di diverso [indica un pilastro esterno della FAU], che è una meraviglia. Tutto questo è, soprattutto, un conversare. Come nel caso della FAU e di Artigas, si tratta di concentrare gli sforzi per creare qualcosa che vinca la gravità ed il peso, che eviti la caduta: qui Artigas sta conversando con tutto quello che ha intorno e questa conversazione è evidentissima. Lo spazio pesa. Non importa se Artigas disegnasse o no; certamente, dietro tutto questo, vi è una conversazione. E qui si tratta di porre una seduta [indica la seduta esterna della loggia della biblioteca FAU] e non una protezione [allude all’assenza di un parapetto di protezione] e di lasciare libero lo spazio, in modo da consentire alla luce di filtrare. È una conversazione continua e costante col tutto, nella quale nulla è determinato a priori. Dove nulla è lasciato al caso.
Tutti sappiamo che esistono due mondi, uno reale, quello della realtà fisica e il mondo dell’immaginario. Però l’essere umano non ha altra possibilità che vivere nel mondo dell’immaginario.
Dall’idea di un capello e poi da quella che molti capelli assieme possano proteggere il nostro capo dal freddo, allora, capimmo che avremmo potuto fare così ! [mima il sistema del tessere basato su trama e ordito] E con questa “florcita” immaginammo di fare questo [indicando il tessuto di cui è fatta la maglia che indossa]. Questa è pura immaginazione: ingegno. Questo, ad esempio, era un albero che, con la sua chioma, faceva ombra e dava frutti [indicando e toccando il tavolo al quale siamo seduti]. Una volta lo si tagliava e lo si incideva per ricavarne della resina. Oggi, il suo stesso legno viene lavorato per farne dei tavoli, ad esempio. Tutto ciò può essere solo frutto dell’ingegno. Trasformare una cosa, dalle determinate caratteristiche, e conferirle una nuova forma e una funzione.
Dunque, si tratta della maniera nella quale noi intuiamo il mondo attraverso l’immaginazione.
Della sua architettura ci interessa molto il dialogo estremamente forte che essa sa instaurare con il luogo nel quale si inserisce. Questo rapporto con il contesto è talmente forte e profondo che il luogo stesso diventa parte attiva ed integrante del progetto. E non sempre è così nell’architettura contemporanea. Dunque, vorremmo sapere che ne pensa del contesto e del luogo come componente essenziale nel progetto di architettura e come esso si inserisca nel processo progettuale?
Probabilmente la mia realizzazione più poetica, nonché quella maggiormente divulgata, è il progetto “Quatro vigas” (quattro travi). Essa può apparire facilmente come qualcosa di estremamente fragile ma anche adatta e pertinente rispetto alla ricchissima naturalezza di quel luogo.
Pensiamo un attimo a quante popolazioni, nel corso della storia, abbiano “orientato” il proprio mondo a partire da simboli precisi ed emblematici, con elementi che rivelano tutta la forza della realtà: pietre giganti, difficili da movimentare, appoggiate fra di loro a terra e armate a formare una figura geometrica inequivocabilmente precisa e attraverso la quale è possibile osservare tutto ciò che possediamo di reale ed irreale. Dunque, il contesto di Quatro vigas, per esempio, sono certamente i piccoli corsi d’acqua paraguaiani e la dimensione atmosferica di quel luogo, ma anche una figura geometrica con più di quattromila anni di storia che si trova dall’altra parte dell’atlantico (Stonehenge). Essa è costruita in maniera tale da vincere la gravità ed esaltare la propria massa, esattamente come avverrebbe per un’opera contemporanea, ovvero, attraverso il governo delle forze e dei pesi. Dunque, nel caso di Quatro vigas, si tratta di evidenziare gli sforzi, perché se unisco due travi in questo modo, non ottengo nulla, mentre, se facessi così (mima la connessioni fra le travi), si noterebbe che esiste uno sforzo di resistenza dall’effetto quasi magico. Chiaro che non si tratta più di massi giganti, come nel caso di Stonehenge, però si tratta di una costruzione dall’inequivocabile orientamento spaziale e spirituale, che rivela la propria capacità di resistere alla forza della gravità imperante.
Mentre la gravità richiama tutto quanto a se, spingendo tutto inesorabilmente verso il suolo , il progetto, come se fosse vivo, sembra voler resistere a questa forza inesorabile per rimanere in piedi! Di fatto, Quatro vigas, lambisce soltanto il suolo senza mai toccarlo, “resistendo” e opponendosi con forza alla gravità. “No! Tu vuoi che io cada ma io voglio rimanere qui sospesa!”.
Allora dove sta questo contesto? Io credo che il contesto sia, alla fine dei conti, una condizione umana. Io credo che il luogo non esista in se ma che esista in me, o ancora meglio, in noi. Credo che si debba prendere il meglio del luogo, prestando grande attenzione a quello che ci circonda. Credo anche però che il progetto non possa essere semplicemente suggerito dalle circostanze, da quello che si incontra vicino, in un preciso momento e in un determinato posto. Esiste sempre un orizzonte più vasto da traguardare. L’aspirazione ad una totalità necessaria, ad un fare universale, che ci ponga all’interno di un universo più ampio, geografico, anche in relazione ad altre manifestazioni umane nel mondo, ha a che fare con una straordinarietà che si possa trasmettere nel tempo, che vada oltre la mera dimensione fisica e temporale del contesto fisico prossimo. Contestuale ma universale.
Noi, in Paraguay, abbiamo bisogno di proteggerci dalle condizioni climatiche alle volte ostili, esattamente come un eschimese. Se in Paraguay non mi proteggessi opportunamente, il sole ed il vento mi ucciderebbero, e lo stesso avverrebbe per un eschimese. Anche se, in questo raffronto, le condizioni fisiche sono radicalmente differenti.
Tuttavia la costruzione di questa idea del comune, è una riflessione trascendente sull’opera umana. E nessuna opera potrà mai essere universale se non saprà prima valicare il proprio particolare. Avere a che fare con una trasformazione intrinseca della condizione nella quale si pone, che permetta di trascenderne l’universo fisico. Se l’opera avesse valore solo per il suo intorno, non sarà mai capace di unire noi tutti nell’universo. L’universalità, in conclusione, è un’idea fondamentale, un’aspirazione necessaria.
Nell’architettura il processo di ideazione è molto importante. Vorrei sapere se il processo come lezione sia importante tanto quanto l’opera costruita o se abbia, addirittura, più valore? In questo senso la lezione dimostrativa della Casa Gerassi di Paulo Mendes da Rocha, è un contributo didattico fondamentale sul come trasmettere un saper fare la casa, prima che il mutuare una tecnica industriale per la residenza privata.
Cos’è più importante? L’idea? L’opera? O la conversazione del progettista con l’universo fisico ed immaginario, al quale il progetto appartiene?
L’architettura sono parole scritte con la pietra con una vocazione specifica, ovvero, quella di fare parte di un linguaggio, attraverso il quale le persone saranno capaci di immaginare altre cose.
Non so cosa sia realmente più importante. Penso sia la conversazione la cosa più importante e che l’opera sia la testimonianza materiale di una riflessione più vasta e complessa. Un atto necessario, che “registri” e materializzi questo conversare, in modo che esso finalmente appaia come realtà. È come se fosse il “promemoria” di un lungo diario, nel quale si annotano le cose più importanti.
L’architettura è una parola, una nota scritta, che serve a fare in modo che la conversazione continui.
Dunque, noi conduciamo questa conversazione e costruiamo queste parole per fare in modo che anche altre persone possano continuare ad immaginare e a conversare per modificare l’esistente .
Altrimenti, come sarebbe possibile, dopo la nostra morte, che altri continuino ad abitare la terra? O addirittura, qualche altro pianeta?
Tutto questo riguarda l’avere un’ispirazione? Avere dei riferimenti nei maestri, per intraprendere questa conversazione…
Potrei parlarvi di Le Corbusier, così come di Aldo Rossi.
Quando ero uno studente, arrivai ad odiare Le Corbusier, perché, pur essendo un architetto che svelò al mondo come costruire una finestra a nastro orizzontale, quell’elemento, formidabile in astratto, per come permettesse alla luce di permeare lo spazio, non era adatto al luogo dove vivevo, ovvero, un posto molto caldo con temperature anche di 40 gradi. Dunque, questa quantità di luce, per lui tanto necessaria, diventava per noi qualcosa di insopportabile e inadatto, così come un tetto piano che non solo copriva ma surriscaldava la casa. Nessuno mai sarebbe salito li in cima. Al contrario, all’interno di condizioni fisiche di questo tipo, bisognerebbe sollevare la casa, affinché si crei uno spazio sottostante coperto e al riparo dal sole cocente.
Dunque, tutto quello che mi veniva trasmesso all’università, diventava impossibile da applicare nella nostra realtà. Perché non aveva nessuna logica per quel luogo.
Alla fine, ciò che rimane di interessante, è la dimostrazione del fatto che le condizioni di tutte le società sono suscettibili all’essere discusse e il fatto che attorno ad esse si possa conversare.
Ognuna di queste conversazioni, fa parte della grande discussione sul mondo. Ciò che è più importante, probabilmente, è il processo e non tanto il risultato. Chiaro che Le Corbusier fu e rimane un personaggio importantissimo, che costruì e permise di costruire molte cose, attraverso una precisa idea del mondo. Il problema non è creare nuovi Le Corbusier, che continuino ad applicare le sue idee, applicando i principi che per lui erano importanti in Alaska, così come in Arabia, in Paraguay o in Francia. Per la Francia probabilmente erano concetti esatti e soluzioni giustificate.
Bisogna capire che quello di cui noi abbiamo bisogno oggi, sono dei mentori, individui che stimolino le nuove generazioni a costruire nuove le condizioni per modificare ed abitare il mondo.
4 dicembre 2016