Un Autre Monde
L’architetto remix tra arte e architettura
di Adriana Granato
Dal momento dell’originario distacco tra architettura e belle arti nell’epoca post-umanistica, tra queste discipline si sono intrattenuti rapporti di natura varia e multiforme. L’arte ha sempre partecipato dell’architettura e viceversa: la loro divergenza o il loro avvicinamento ne hanno segnato le sorti.
La nascita dell’architettura moderna è il momento fondativo per un nuovo dialogo tra scultura, pittura e architettura: Le Corbusier, nel suo scritto ‘’L’espace indicible”, professa la sintesi tra le arti come il punto di arrivo dello spazio. L’“azzeramento” del tasso estetico superficiale dell’architettura lascia alle altre arti il campo libero per il compimento di quella che definisce “l’emozione plastica”.
Lo spazio è il luogo di incontro: non uno sterile contenitore ma lo spartito per la naturale realizzazione dell’opera.
Nonostante alcuni estremi – dal secondo dopoguerra e fino agli anni ’60 – il razionalismo non ha mai negato l’importanza dell’arte nell’architettura. Il rapporto diventa ancora più esplicito e ricercato dagli architetti come dagli artisti e dai committenti. L’Italia ne è un fiorente esempio: architetti come i fratelli Latis, Figini e Pollini, Menghi, Zanuso, collaborano con artisti del calibro di Fontana, Melotti, Salvioni e altri. Importanti esperienze come il Movimento per l’Arte Concreta prendono vita animando il dibattito tra design, arte e architettura in una Milano che rimarrà felicemente segnata da queste collaborazioni. Un momento dorato dell’intreccio tra le arti, fortemente ricercato dagli architetti e sostenuto da una committenza colta e consapevole del valore dell’architettura come opera collettiva che si consegna al tempo.
Questa simbiosi tra le arti s’incrina intorno agli anni ’70, gli eventi storici richiamano l’arte verso altri orizzonti e l’architettura – anche in reazione a ciò – riammette al suo interno il dato estetico. L’architettura postmoderna prova a restituire un’armonia classica al fatto architettonico rendendosi, in una qualche misura, autonoma dalle altre arti: la cura del disegno di architettura e la ricerca architettonica ne sono la prova, anche se difficilmente rispecchiate da un’altrettanta cura nel dettaglio realizzato.
Questo protagonismo architettonico cresce fino a trasformare l’architetto stesso nell’io artistico totalizzante dell’opera. A cavallo tra gli anni ’90 e i primi 2000 il trionfo delle archistar segna questo passaggio: l’architetto demiurgo trasforma l’architettura in oggetti artistici a scala gigante. Gli elementi dell’architettura sono i suoi stessi gesti, ognuno dei quali è un’installazione-architettura. L’architetto è uno scultore che manipola lo spazio piegandolo a suo piacimento.
È indubbio che l’eredità di queste ultime fasi, tutto sommato non ancora totalmente superate, continui ad appesantire il discorso architettonico attuale.
D’altra parte, proprio in risposta a ciò, in Italia e più in generale in Europa si è riattivata in tempi recenti una tendenza alla ripresa dei canoni del primo moderno, purtroppo però manchevole di quella vita plastica che l’arte aveva il potere di conferire alle opere d’architettura.
Si direbbe quasi che siamo in un momento di massima distanza tra i percorsi di arte e architettura, e ben lontani da quella sintesi magnificata nella prima parte del secolo scorso.
Eppure una tendenza silenziosa, nata da un recondito desiderio di espressione delle nuove generazioni di architetti, si sta declinando in modo singolare. L’ampliamento esponenziale delle tecniche di grafica e rappresentazione architettonica ha aperto la strada a nuove e inesplorate frontiere: i giovani architetti tengono testa agli artisti sul loro stesso campo d’azione, anzi – di più – sono loro i custodi dei segreti della tavolozza digitale. I giovani architetti tendono, in modo più o meno consapevole, a essere essi stessi artisti: l’oggetto della loro attenzione si amplia infinitamente ed indefinitamente, accogliendo mondi lontani nel tempo e nello spazio.
Se l’architettura è un’opera collettiva, questi collettivi la prefigurano onirica, ultraterrena, spesso spaziale. Il prodotto di questi virtuosismi virtuali non sono, come si potrebbe pensare, banali disegni di architettura, ma immagini cariche di riferimenti, capaci di tenere insieme qualunque contraddizione.
Le immagini – non vincolate allo scopo realizzativo del disegno di architettura – assumono vita propria. Ma come un libro prende congedo dal suo autore per diventa qualcosa di diverso tra le mani di ogni lettore, così l’immagine abbandona – forse ancor più speditamente – il suo creatore per adottarne di nuovi.
L’immagine potrebbe certo, molto più della parola, essere univoca. Ceci potrebbe anche essere un pipe, se si volesse. Ma se l’abbandono dell’univocità è programmatica, se la pluralità di riferimenti, di incroci, di possibili significati esplode nelle più diverse composizioni, allora se ne deve dedurre una precisa volontà.
La domanda dunque sorge spontanea: si può affidare a quest’ultima e freschissima tendenza una speranza di riavvicinamento tra le arti? Cosa c’è dietro le ambiguità di queste stravaganti creazioni? Bastano figure e volumi platonici a ricordare che dietro ognuna di esse si cela un architetto?
È qui che entra in gioco l’esercizio della recensione: mettendo a nudo le immagini, fornisce alcune tra le loro interpretazioni possibili allo scopo di comprenderne meglio il potenziale e, forse, la prospettiva che esse descrivono. Si compie – in fin dei conti – la stessa operazione che gli autori eseguono nel loro collage compositivo: una decontestualizzazione.
L’autore, l’architetto, l’artista si confondono, e a volte si nascondono dietro l’oscurità delle proprie immagini. Quel che rimane è soltanto l’a.
La nuvola strutturale
La storia dell’arte ci insegna che le nuvole possiedono una poderosa portanza statica.
Ne sono la prova lo stratocumulo che solleva il Cristo di Giotto accompagnandolo verso l’ascensione, la parete di nuvole abitate del giudizio universale michelangiolesco, o i movimentati cieli di Tiepolo, dove le nuvole svelano, nascondono e soprattutto sorreggono mirabolanti scene barocche. La topografia delle nuvole consente la creazione di paesaggi celestiali liberi, dove le figure non sono sospese nel vuoto, ma sollevate dalle soffici e bianche rocce vaporacquee. È indubbiamente una nuvola la protagonista di questa immagine: dall’alone circolare, l’ordinato vapore acqueo si concentra in una sfera azzurra. Lo scambio tra il bianco del cielo e l’azzurro della nube è dettato, evidentemente, dalla sua forza e concentrazione che ne sottolinea le caratteristiche strutturali. Una maschera vagamente hejduckiana si fonda saldamente sulla nuvola, che allo stesso tempo ne costituisce l’aura e la protegge dal comune mondo.
La nuvola strutturale è l’arca di salvezza del concetto.
Architettura animale
Come terrificanti transformers meccanici, l’House of the Suicide e l’House of the Mother of the Suicide insieme alle Security Mask, invadono un capriccio di rovine classiche di Giovanni Paolo Pannini.
No sbagliamo, non è un’invasione. Pare piuttosto una riunione di amici di lunga data, in un luogo bucolico, un posto dove affondare le meccaniche membra e sostare.
No no, non è possibile. Il mondo è in costruzione, le maschere meccaniche stanno costruendo il mondo in forma di rovina di Giovanni Paolo Pannini.
No, non può essere vero neanche questo. Le maschere non costruiscono il passato che le ha costruite. Forse – al massimo – lo restaurano. Ma allora il fascino della rovina?
Non può essere, ci si sbaglia ancora: ma ecco l’idea, ci siamo.
È l’incontro tra architetture ideali nel mondo dell’ideale, dove coesistono nobili rovine del passato e sublimi monumenti moderni.
The White Box
La scatola bianca è un’installazione di carattere socioculturale: la possibilità che essa esista in qualsiasi luogo, mettiamo anche tra alcune sedie impilate, ne costituisce la forza.
La scatola bianca potrebbe anche non essere altro che un’impressione, uno scherzo della mente. Verrebbe da dire: tale è la sua perfezione che non può che essere un’idea.
La scatola bianca, ovunque essa sia, è un desiderio di perfezione, una speranza dell’intelletto.
Ma pare che la scatola bianca esista davvero; e pare si trovi tra alcune sedie impilate.
La società la ignora, ma l’a. no. È – chiaramente – l’oggettivazione del desiderio.
Balle spaziali
In una puntata di Futurama del 1999 la balla spaziale creata dalla spazzatura lanciata nello spazio dall’umanità del 2000 sta per colpire come un gigante meteorite l’umanità del 3000 sulla terra. Matt Groening, si sa, è un profeta. Ma forse non è comune spazzatura quella di cui l’umanità del 2000 vuole liberarsi, forse non si tratta proprio di spazzatura. Già nel 1977 Carl Sagan decise di affidare alle sonde spaziali Voyajer 1 e 2 immagini idilliache del pianeta terra, insieme alle più alte note che gli umani avessero mai prodotto fino alla data: il Concerto Brandeburghese in fa di Johann Sebastian Bach, un’aria dal Flauto magico di Mozart, Le Sacre du Printemps di Igor Stravinskij e qualche canzone pop americana.
Forse il messaggio non è stato ancora ascoltato dagli amici alieni, o forse non li ha colpiti abbastanza. Per questo è ora di provare di nuovo, con qualcosa di più forte, di più grande, di magnifico: l’Architettura.
Ed ecco una piattaforma che solleva nello spazio le Marina City Towers di Paul Goldberg, la Beinecke Library di Gordon Bunshaft, la Casa da Musica di OMA, il Kimbell Museum di Louis Kahn, il Palazzo dei congressi di Adalberto Libera, l’Auditorium di Renzo Piano, il Climat de France di Fernand Pouillon con dentro Piazza Navona…
Rimaniamo in attesa di un gentile riscontro.
Dramma roccioso
Due rocce confliggono per protagonismo: una prima travagliata e irregolare, rossiccia, appare tale da ere geologiche. È in aspetto naturale, rappresenta tutta la natura che c’è nell’opera. Tutta l’opera è in effetti un paesaggio lunare.
La seconda roccia è soffice al tatto, liscia, prende sembianze geometriche perfette, la scarsa luce ne esalta le forme. È di fondazione umana, un rifugio stabile e forte.
Il contrasto tra natura e artificio, si direbbe, ma non è tale la ragione di questa immagine: è la complicità a legare le due rocce, a farne una il presupposto dell’atra e viceversa, l’istituzione dell’equilibrio essenziale.
Poi, in un angolo, sospira una donna.
Anatomia di un cerchio
Qualcosa di cui rallegrarsi – la bellezza cinetica.
In Roger Federer come esperienza religiosa David Foster Wallace espone con accuratezza ossessiva le ragioni per cui Federer è un tennista metafisico: in sintesi quando il corpo e le sue estensioni artificiali si congiungono in un equilibrio assoluto creano pura bellezza, bellezza in movimento.
Ci sono degli indizi che mi portano a pensare che le particelle dell’immagine stiano tendendo verso questo tipo di bellezza, la bellezza cinetica.
I puntini danzanti si disperdono e si concentrano a tratti, se ne vedono differenti configurazioni nel tempo, i corpi della comunità dei puntini danzano come attirati e scissi da forse contrastanti, poli magnetici, linee di forza.
In un dato momento, poi, diventano un cerchio.
La zuppa di torri
Ingredienti: 1 torre dell’acqua, 1 torre del fuoco, 1 torre del ghiaccio, 1 torre dell’aria, 1 torre della luce, 1 Paradiso dantesco di Gustave Dorè, architetture black&white, 1 sindaco di Milano, 1 Donatella Versace, 4/5 altri personaggi a piacere, un pizzico di Santità, micro-teste di toro, Stanlio e Olio q.b.
Rivestite uno stampo da forno circolare col la litografia paradisiaca, facendo attenzione a porre le architetture in black and white sui bordi perché aderisca alla forma. Successivamente aggiungere le 5 torri a piacere, si consiglia in posizione stellare. Mescolare i personaggi in una casseruola e versare il composto nella forma da forno. Spargere bene i personaggi tra le torri.
Pulire e lavare accuratamente le teste di toro e applicarle alle nuvole e infine spruzzare un pizzico di Santità.
Centrifugare e lasciare decantare.
Aggiungere Stanlio e Olio a piacimento.
Urbanizzare la luna
Qual è la relazione tra montagne e piramidi? Che rapporto vi è tra metropoli urbanizzate e paesi di campagna? Tra le energie rinnovabili e i cespugli di mirto? Sono queste le domande che attanagliano l’a. di questa enigmatica immagine. Il koolhaasiano teorema del 1909 ci viene in aiuto: «il grattacielo è la formula utopica per la creazione illimitata di territori vergini su un unico lotto urbano».
Ecco come urbanizzeremo la luna: le gerarchie terrestri su un grattacielo spaziale.
Monumento ai giocattoli
Come nell’opera di Savinio, un mucchio di oggetti colorati riempie il campo dell’immagine: è un luogo recondito della mente dove l’a. conserva i propri desideri geometrici – una piramide, una colonna, un arco.
Non esiste ombra in questa natura morta (nell’aldilà i corpi non proiettano ombra); una luce acuta satura i colori (nell’aldilà ci sono questi colori); il terreno sembra ribollire di condotti di areazione e arbusti radioattivi; lo skyline è disegnato da un bambino.
Lontano anni luce dalla realtà, è il territorio dell’infanzia quello di questo luogo inconscio: abbacinate dalla luce, le forme (architetture?) diventano balocchi da impilare e capitombolare a terra nell’universale ripetersi del giuoco.
Teorema della cancellazione
È un gesto secco quello della cancellazione, ma allo stesso tempo è un metodo.
Come le cancellature di Emilio Isgrò manipolavano il testo negandolo criticamente, la cancellatura architettonica è la composizione di un nuovo spartito attraverso la cancellazione di elementi delle realtà che pietrificano il significato della forma.
Cancellare consente di fare spazio a nuove idee, di creare legami diversi con le idee preesistenti.
La cancellazione non è la sottrazione, il riportare allo stato di assenza dell’elemento, ma copre ed evidenzia allo stesso tempo ciò che cancella istituendo quindi un nuovo ordinamento: la sovrapposizione coatta di una tabula rasa su ciò che ora non si distingue più.
L’immagine, che esprime un gesto minimo, significa l’assenza e la presenza allo stesso tempo dell’oggetto cancellato. Forse è l’inizio di una rivoluzione.