Non è semplice essere un giovane architetto nel 2020. Fare parte di quella che oggi viene chiamata New Generation(1), ossia quella generazione di architetti che ad oggi sono compresi nella fascia under 35, comporta spesso essere nel mirino di dichiarati esperti, giudici dell’architettura, che sembrano non trovare alcun punto di contatto tra i giovani architetti e quelli della vecchia leva. Far parte della generazione under 35 significa, infatti, riuscire a vedere il mondo con occhi nuovi, un mondo che abbiamo visto cambiare repentinamente negli ultimi trent’anni.
La nuova generazione è quella nata in concomitanza con uno degli eventi che ha sconvolto maggiormente l’assetto politico e culturale in cui viviamo e, di conseguenza, ha inevitabilmente inciso sul rapporto tra uomo e architettura, tra architetto e progetto. Essere nati a cavallo del 1989, anno della caduta del Muro di Berlino e della successiva nascita dell’Unione Europea, non solo ha significato grandi opportunità, ma anche grandi responsabilità. I ragazzi cresciuti nell’Unione sono stati presto riempiti di speranze: la certezza di poter viaggiare senza limiti di frontiera, la libertà di scegliere il paese in cui vivere, la possibilità di conoscere e intrecciare la propria cultura con altre. Ma soprattutto gli è stato promesso che nulla era impossibile al loro volere e che sarebbero stati loro stessi gli artefici del futuro collettivo. La storia si sta costruendo anche oggi e c’è da chiedersi, a distanza ormai di trent’anni, che effetti abbiano portato queste promesse e chi siano oggi quei giovani adulti.
Negli anni siamo stati caricati della responsabilità di rivestire il ruolo del futuro, anche se noi stessi eravamo inconsapevoli di cosa nascondesse il domani. Siamo stati bombardati da una serie infinita di rivoluzioni digitali. Abbiamo da prima ascoltato la musica in cassette a nastro avvolte con le nostre dita, poi in pesanti lettori CD ed infine in minuscoli lettori MP3. Ci siamo innamorati per la prima volta scrivendo brevissimi SMS, codificando il nostro linguaggio per rientrare nel costo di un solo messaggio. Abbiamo ricevuto il nostro primo telefonino a colori e siamo stati pronti presto a salutarlo, per condividere le nostre foto migliori su telefonini digitali privati addirittura della tastiera. Abbiamo rincorso il progresso come perseguitati dal terrore di restare intrappolati nel passato. Ma siamo riusciti a diventare quegli uomini e quelle donne che chi attraversava per primo quel muro si immaginava?
[…] Si afferma un nuovo tipo d’uomo, mentre impallidisce la fisionomia del funzionario di partito e di stato. Quest’uomo nuovo è l’artefice del cambiamento radicale in corso. Riconoscerlo è facile: ha imparato a discutere con gli altri senza indottrinarli, è capace di arrossire per la vergogna, se è il caso. Parla liberamente e può ignorare i preconcetti. Non solo accetta le domande, ma apprezza lo scambio di vedute. La sua passione è contenuta ed è dotato di pazienza, perché tutto ciò che possiede l’ha ottenuto grazie a questa virtù. Il suo discorso è sfumato, come quello di chi ha superato più di una prova e ormai padroneggia tutti i registri dell’ironia. Può parlare di certe cose senza perdere il sangue freddo. Sembra essere apparso all’improvviso, ma ha alle spalle un lungo processo di maturazione. […]
(Politique étrangère, Karl Schlögel, autunno 1989, da L’Internazionale, Novembre 2019, pg. 90-91)
Tra questi giovani sono cresciuti gli architetti della New Generation. Maturati su banchi universitari dove, ancora oggi, si studia una storia ed una storia dell’architettura di un tempo ormai passato, si sono presto confrontati con un mondo professionale ben distante da quello sognato tra le pagine dei libri. L’uomo immaginato da un lontano Le Corbusier sembra ormai rappresentare un prototipo di uomo che oggi non potrebbe mai esistere e che, forse, non è mai esistito. Abbiamo imparato a progettare spazi per un uomo lontano, passato e ci siamo presto scontrati con la realtà contemporanea, in cui una società nuova sta ancora cercando la propria dimensione, il proprio spazio.
Accade spesso che i neo-architetti tentino in prima istanza di entrare in studi di progettazione già affermati, per fare esperienza e schiarirsi le idee su cosa voglia davvero dire fare architettura e che significato abbia per loro. Molte volte, però, le più grandi aspettative vengono tradite e finiscono per essere considerati niente più che cad monkeys al servizio di un ampio open space, pieno di computer dal marchio ortofrutticolo. Tale condizione di sfruttamento e di insofferenza li spinge spesso a fare scelte alle volte rischiose, ma inevitabili. Questa tendenza della nuova generazione a ricercare la propria dimensione, a costo di affrontare un alto rischio di fallimento, scatena un apparente individualismo culturale, una tendenza all’auto-determinazione compulsiva. Tuttavia tale fenomeno nasconde un processo particolarmente veloce di globalizzazione, durante il quale la maggior parte di loro si è confrontata con esperienze all’estero, con culture diverse e società complesse. Questo ha inevitabilmente portato i giovani professionisti sull’orlo di una crisi di metodo: i loro progetti sembrano semplici utopie e i loro manifesti, considerato il numero esiguo e la frequenza con cui vengono prodotti, sembrano ormai non più credibili. Si tratta invece di un urlo disperato di una generazione che è stata costretta a reinventare una professione che non aveva mai visto condizioni simili prima d’ora. Un panorama di nuovi architetti con milioni di background differenti e opinioni uniche, che difficilmente sposano la fondazione di un Movimento come siamo soliti pensarlo. Ciò che accade è il quasi totale rifiuto di sentirsi appartenenti ad un movimento stilistico, che rischia di soffocare la loro creatività e libertà in campo teorico-progettuale. Viene quindi a crearsi quello che possiamo definire metaforicamente puntinismo architettonico: il fenomeno, in direzione contraria ai movimenti del secolo scorso, secondo cui gli architetti di nuova generazione tendono a riunirsi in piccoli e numerosi gruppi sparsi per l’Europa, per fondare studi di architettura o collettivi di ricerca dall’identità unica. Non trovando infatti punti di connessione forte con gli altri giovani professionisti, non aspirano a redigere un Manifesto comune che generi un Movimento, piuttosto invece cercano punti di contatto (2) che gli permettano un dialogo aperto.
L’avvento dei social,inoltre, ha influenzato il modo di comunicare ed interpretare l’architettura contemporanea. Un’architettura che sembra fatta di immagini spesso devianti, che sembrano aver abbandonato del tutto le rigorose teorie architettoniche dei primi del ‘900. Nonostante spesso queste immagini, questi mixtape, questi remix, questi collage che i giovani studi usano per raccontare i propri progetti possano sembrare irreali e vuote, nascondono significati molto più profondi. A questo proposito è inevitabile citare il lavoro editoriale condotto da Carnets, Filoferro Architetti e Järfälla. Anche se in maniera diversa, ognuno di loro si è interrogato su una questione centrale nell’analisi dell’architettura contemporanea: i metodi di rappresentazione. Sebbene il tema non venga affrontato direttamente, hanno ritenuto indispensabile interrogarsi sulle recenti trasformazioni dei metodo di rappresentazione. Dopo aver abbandonato la tecnica dei render, tipica degli ultimi anni del ‘900 e famosa per voler simulare ambienti il più possibile reali, ci si è mossi a favore di tecniche di rappresentazione grafica caratterizzate da collage con scopi quasi fantastici, visionari. Entra in scena quindi il tema dell’utopia, centrale e aggiungerei fondamentale per la comprensione di chi sia e dove voglia andare la nuova generazione di architetti.
L’utopia che si legge nei progetti, nei collage e nei lavori di ricerca non è mai banale e lasciata al caso, ma rispecchia una condizione contemporanea.
[…] Credo che l’utopia nasca dal voler mettere a nudo quella che potrebbe essere la realtà del domani, attraverso l’investigazione accurata delle problematiche riscontrate nel contesto sociale di oggi. Vuole essere, quindi, un sussurro alle orecchie di chi saprà ascoltare, ma soprattutto vedere.
Credo che, soprattutto nella professione, sia fondamentale l’utopia. Utopia vissuta come esercizio mentale, che è LA VISIONE. […] Bisogna forse pensare, in maniera semplicistica, all’utopia e alla professione come due sistemi disgiunti, capaci di entrare in collisione tra loro tramite la nostra forza di dilatare gli spazi della comprensione, senza però arrivare a rottura. Ecco forse è proprio questo, ciò che io definirei una “ponderata dilatazione”. […]
(da Enrico Casini in Utopia, Järfälla, 2017)
Ci si interroga su possibili scenari, su città utopiche e su realtà di un domani che arriva, molto spesso, troppo veloce. L’utopia diventa un tenue sussurro, un suggerimento per chi ha voglia di leggere e interpretare quei segni spesso trascurati nelle nostre città. L’architetto della nuova generazione si interroga. Guarda la città, guarda la società che la vive e cerca di tradurla in un linguaggio nuovo. Come in passato ha imparato a codificare il suo linguaggio, da prima con dei brevi SMS e ben presto con l’uso di internet, così oggi è di fronte ad una nuova sfida: codificare in progetto i veloci e drastici cambiamenti della società in cui opera, per mezzo del linguaggio architettonico. Una sfida spesso complicata, sia per la quantità di variabili che influenzano il cambiamento della nostra società, sia per la più frequente impossibilità di tradurre in materia costruita ciò che si ricerca e teorizza. Ad un occhio meno attento sembrerà quasi che l’architettura contemporanea non voglia più parlare di abitare, di edifici e di luoghi costruiti, ma solo sognare un mondo fantastico in cui vivono personaggi estratti da dipinti o vecchie riviste. In realtà c’è molto di più. Non è un caso che il tema dell’edificio non costruito ed immaginato sia diventato centrale all’interno della ricerca della nuova generazione. L’impossibilità di costruire architetture nuove in Europa, sia per motivi economici che politici e burocratici, ha spinto sempre più spesso i giovani studi ad immaginare edifici utopici, non ancora costruiti e che (molte volte) probabilmente non lo saranno mai. Un esercizio progettuale con un retroscena fortemente teorico, in cui i nuovi architetti indagano la città, l’uomo e la società.
Nel modo tradizionale di esercitare la professione di architetto, il termine materializzazione si riferisce alla prova finale di un’idea. Non è più così. Le idee architettoniche possono essere esplorate attraverso molti mezzi di cui la progettazione di edifici è importante, ma non la sola. Alcune idee possono essere immaginate attraverso disegni, modelli, ma anche come progetti completi attraverso una serie infinita di mezzi. E’ sorprendente che possano avere un impatto simile, se non addirittura migliore, sul pubblico come spettatore. Possono diventare fonti di una maggiore consapevolezza dell’ambiente costruito e dei suoi possibili scenari. I progetti non costruiti possono essere estremamente potenti – possono indurre le persone a comportarsi in modi nuovi, proprio come può fare l’architettura costruita. Alla fine, molte delle idee potenti del non costruito appariranno in modi un po’ dissolti in un edificio – usate o abusate da altri, portando il loro peso iniziale o dissolto su qualcos’altro.
(da RLOALUARNAD in Architecture is just a pretext, CARNETS, dicembre 2019, pg.90-91. Traduzione a cura dell’autrice)
Il collage diventa quindi il modo in cui gli architetti di nuova generazione riescono a passare un messaggio veloce ad un pubblico inconsapevole dei profondi significati teorici che nascondono, ma di certo conscio dell’ambiente costruito e dei suoi possibili scenari. Tramite l’uso del collage, utilizzando immagini e riferimenti noti, la nuova generazione crea i propri manifesti, espressione della loro identità unica.
Sicuramente l’uso del disegno di architettura classico, come siamo soliti conoscerlo, non riuscirebbe a colpire l’osservatore come, allo stesso modo, l’impatto mediatico della Superarchitettura non sarebbe stato lo stesso senza l’imposizione di campate gigantesche e provocatorie sulle città della fine del secolo scorso. Le nuove tecniche di comunicazione hanno quindi influenzato la lettura e la percezione delle immagini. Se prima per venire a contatto con i temi dell’architettura si doveva andare a cercare in librerie fornite o ricche biblioteche, oggi è accessibile a tutti, ad ogni ora. Lo strumento dei social media come fonte di conoscenza è ormai un fenomeno più che affermato e che non merita nemmeno ulteriori spiegazioni. è da sottolineare però, che mai prima d’ora l’architettura ha vissuto un periodo di così prolifera diffusione da parte della società che la vive. La presenza di studi di architettura su instagram, ad esempio, non solo ha comportato una maggiore pubblicizzazione degli stessi ed una inevitabile appartenenza ad un network (anche solo riferendosi ai propri follower), ma ha anche imposto che il disegno dell’architettura venisse proposto tramite post dal formato predefinito, di facile lettura e disponibili a portata di tap. Inoltre, la possibilità di venire a contatto con la realtà che ci circonda semplicemente sfogliando una bacheca, ha di certo riprogrammato le regole del tempo. Nonostante quindi l’accessibilità all’immagine di architettura abbia aumentato il suo raggio d’azione, la sua comprensione si limita al tempo di permanenza dell’utente sul post.
La durata delle immagini digitali non è più quello delle immagini, ad esempio, che venivano esposte in un museo o pubblicate su di un libro. Il tempo delle immagini oggi è molto breve e, in quanto tale, ha bisogno di messaggi forti, semplici e immediati, affinché il suo significato celato venga recepito velocemente. In questo modo i metodi di rappresentazione del progetto non cercano più di raccontare un tempo dell’architettura lungo, dove un possibile osservatore potrebbe immaginare un architetto dedito ai disegni a china nel suo studio pieno di scartoffie. Al contrario, la durata dell’immagine è lunga un istante, giusto il tempo di cogliere un’emozione, una sensazione che ci rimanda ad atmosfere sognanti o profondamente familiari. In questo modo l’immagine si carica di una forte utopia per meglio raggiungere il suo scopo: quello di trasmettere una sensazione di forte empatia per luoghi non ancora visitati. Quasi nostalgia d’altrove, o Fernweh come direbbero i tedeschi, che rimanda a luoghi sconosciuti, ma a noi familiari. Le immagini raccontano anche di un’empatia tra chi disegna e chi legge, tracciando una linea immaginaria tra architetto e lettore. La ricerca, infatti, di un forte legame non solo con il progetto, ma con l’utente finale, è centrale all’interno della ricerca teorica dei nuovi studi.
Il tempo è dunque un tema scottante per questi giovani architetti. Rincorsi da un tempo che ha fatto scappare da prima gli anni ‘90, poi i duemila e ora i primi anni ‘20 del nuovo secolo, si interrogano quindi su quale sia il vero tempo dell’architettura, consapevoli che quello delle immagini non sopravviverà certo al tempo di vita di un edificio.
[…] L’Architettura ha bisogno di più tempo. Un tempo di assorbimento diverso. Il tempo in Architettura è necessario. Ciò che crediamo, per cui siamo militanti quotidianamente, è che l’Architettura deve ritrovare il proprio tempo. E’ necessario ritornare al tempo del saper fare, del saper assorbire, del saper trovare una giusta dialettica per motivare ogni scelta spaziale e dunque progettuale, il tempo del poter sbagliare, del saper prendere e andare. Finché l’uomo avrà necessità di esprimersi rispetto ad altre specie animali, esisterà l’Architettura. Dobbiamo ritrovare il tempo che l’Architettura richiede. Nel tempo in cui ogni idea si genera è necessario allargare il campo visivo, per poi tracciare e definire uno spazio che sia di tutti. E’ un confine labile e pericoloso. Ne va della nostra responsabilità e credibilità. […]
(da Sul tempo, le istanze ed altre pulsazioni, Filoferro architetti, per JACQUARD of living, 00_Call, Febbraio 2020)
Proprio per ritrovare il tempo dell’architettura, bisogna riappropriarsi del tempo di fare le cose. L’esigenza di produrre materiale editoriale in formato cartaceo, è un evidente necessità della nuova generazione di riportare il progetto e l’architettura con i piedi per terra. Riconquistare lo spazio ed il tempo che essa necessita, concedendosi il tempo di stesura, pubblicazione e conseguente lettura di quei significati ancora nascosti e presenti all’interno del processo architettonico.
Per poter leggere la società, l’architetto deve quindi utilizzare non più solo rigide regole teoriche o strumenti tecnici, ma essere in primo luogo capace di mettersi in gioco all’interno del processo di progettazione. Mettere a disposizione il proprio bagaglio emotivo, le proprie affezioni come direbbero i Filoferro architetti, diventa centrale nell’analisi progettuale. è necessario creare quel legame, quella connessione, quella forte empatia che permette al giovane architetto di guardare al progetto con un occhio al singolo, e l’altro al contesto.
Volevamo che la rivista fosse caratterizzata da un approccio collettivo e volutamente multidisciplinare. Così nelle nostre pagine abbiamo coinvolto immediatamente le personalità e le sensibilità più diverse. Artisti, collagisti, muralisti, illustratori, fotografi, architetti e studenti… tutti hanno contribuito insieme al nostro progetto. Sono tutte voci – provenienti infatti da ambiti diversi – che spesso non dialogano ma che, a nostro avviso, contribuiscono a delineare un ritratto il più possibile sfaccettato e completo sui nostri temi di ricerca.
Ci è sempre piaciuto immaginare la nostra rivista come un’agorà, una piazza immaginaria fatta di carta, parole e colori in cui tutte queste voci si incontrano per presentarsi al lettore. Un luogo dove, nonostante le differenze, tutti possono parlare la stessa lingua, producendo un testo e un’immagine: la prima è concepita come uno strumento per approfondire la ricerca personale, mentre la seconda dovrebbe essere un elemento di sintesi e di astrazione.
Il progetto editoriale è stato quindi immaginato e pensato per trasmettere un messaggio: perché non instaurare un dialogo con realtà lontane dalla progettualità e dai bizzarri tentativi di recupero di un altro quartiere fatiscente? Perché non riportare l’arte nella nostra vita? Perché non lasciare che gli artisti spieghino di nuovo il mondo? E perché non dare agli architetti la possibilità di riscattare il progetto del futuro?
(da The role of the architect in contemporary society, Järfälla, per JACQUARD of living, 00_Call, Febbraio 2020. Traduzione a cura dell’autrice)
Il classico approccio alla progettazione architettonica è quindi demolito, a favore di un nuovo assetto, mutabile e dinamico, che ribalta completamente le regole del gioco. Il progetto e la sua immagine diventano i risultati di un processo costruito da molteplici attori, in diverse fasi di riflessione. L’architetto di nuova generazione si interroga su quali significati tali riflessioni abbiano e si carica della responsabilità di tradurle in progetto reale. Non è importante che esso venga costruito o meno. L’immagine ne fa da mediatore e racconta di realtà, visioni e attimi complessi in cui l’architetto, tramite l’uso di collage di atmosfera e di ambiente, lancia un messaggio a chi vorrà leggerlo. Ogni immagine diventa una testimonianza, da raccogliere ed immagazzinare nel nostro archivio emotivo per poter riuscire a leggere la città (e quindi la società) con nuovi occhi.
Tirando quindi un po’ le somme, possiamo ora comprendere quali e quanti siano i fattori che influenzano la produzione di un’immagine di architettura oggi. Il fenomeno raccontato dai loro collage, dai loro remix, sembrerebbe più coerente alla definizione di eterotopia, più che di utopia. Forse l’errore semantico deriva proprio dalla loro inevitabile discendenza da quei movimenti del ‘900 che a lungo avevano millantato visione utopiche. Al contrario delle precedenti, le visioni della nuova generazione raccontano spazi e luoghi che ancora non esistono, ma che potenzialmente potrebbero già esistere.
Raffigurando i loro progetti come pendenti in un’immagine riflessa, i giovani architetti leggono lo spazio contemporaneo con empatia, raccontando per illustrazioni progetti che vivono in una realtà sospesa ed irreale. Rivolgendosi a chi saprà guardare attraverso lo specchio, la nuova generazione propone immagini in cui i loro luoghi sanno parlare ad altri luoghi di altri luoghi, attraverso spazi nuovi che raccontano emozioni antiche.
Trasmettere messaggi per immagini diventa quindi un’operazione quasi rituale, in cui i tempi della ricerca si allungano e si confrontano con il tempo sospeso della lettura. Una lettura veloce e a portata di like, che ribalta e costruisce nuovi metodi di comunicazione. Attraverso immagini dal forte impatto emotivo, coniugate per mezzo di un rinnovato linguaggio architettonico, la nuova generazione vuole scaturire nel lettore un’emozione che si pone tra lo stupore, la scoperta e il Fernweh. Un istante di lettura che vuole consigliare di riprendersi i propri tempi e, soprattutto, i propri spazi.
Noi non vogliamo ancora dare un nome a questa nuova generazione che, non solo ci propone sottili e puntuali riflessioni sociali, ma che sta rivoluzionando la figura ed il mestiere dell’architetto. Siamo d’altro canto certi che sarà la storia a suggerircelo. Si muove allo stesso tempo veloce e lenta questa generazione, alla ricerca di un equilibrio perduto. Noi continueremo a leggere le loro immagini, a farci pervadere da nuove e complesse emozioni, alla ricerca di una nuova definizione di architettura per quella nuova società, per quell’uomo nuovo. Arrivato all’improvviso.
(1) da New Generation, un progetto di Itinerant Office, G.Venturini (2013)
(2) da Terzano M. intervista Giacomo Razzolini per #Remix , Filoferro Architetti, 20 Gennaio 2020