di Valerio Paolo Mosco
Sfogliando il libro “Messico 1935-1956” (Humboldt Books, 2021) che raccoglie le belle fotografie di Josef Albers scattate proprio in Messico, possiamo avventurarci in una questione ancora aperta, quella sull’astrazione. Albers è stato uno dei padri del Bauhaus, un maestro dichiarato, tra l’altro il primo studente a diventare professore della scuola. Famosi sono i suoi quadri di totale geometria e colore, di totale astrazione minimale icastica. Mettiamo a reagire questi quadri con le foto messicane. All’apparenza la relazione non si coglie. Il geometrismo astratto sembra non ritrovarsi in fotografie i cui temi sono le maestose rovine precolombiane, il mondo popolare di una terra rurale e la sua architettura vernacolare.
Eppure proprio nelle ultime pagine del libro appare uno scatto rivelatore. Esso è preso dall’alto, da un tetto o da un balcone da cui si vedono i colmi di muri rurali sovrasti da umili coppi. In fondo la densa vegetazione messicana che vi si insinua. Dopo aver visto tutto ciò indossiamo quelle che chiameremo per l’occasione le lenti dell’astrazione, lenti capaci di farci cogliere le linee essenziali che definiscono i campi spaziali riempiti di masse e tessiture. Indossate queste lenti il tutto si trasfigura, ma non si trasfigura dimenticando la sua origine, ovvero il soggetto dell’immagine stessa, ma mettendo in evidenza quella che potremmo chiamare la sua struttura astratta, se vogliamo la sua quintessenza.
Albers con questo scatto ed altri ancora, specialmente quelli architettonici più predisposti all’astrazione, sembra dirci che la realtà, se colta ad arte dalla macchina fotografica, rivela un’altra natura complementare alla sua apparenza. Si misura in ciò il grande potenziale espressivo della fotografia: nella capacità che la stessa ci da di cogliere la struttura astratta di ciò che vediamo. Lo capirà, dopo Albers, Roland Barthes nel suo famoso saggio sulla fotografia: capirà che è necessario proprio partire dal potere astrattivo della stessa. D’altronde lo stesso termine astrazione deriva dal latino abstrahĕre, ‘trarre fuori’, per cui selezionare, e la fotografia non può esistere senza un’operazione di selezione. È un lascito, questa capacità di astrarre, di quell’avanguardia di cui Albers faceva parte integrante.
Non stupisce allora leggere nel libro, nella lettera che Albers scrive ai coniugi Kandinskij, questa frase: «Il Messico è davvero la terra promessa per l’arte astratta». Lo è in quanto nelle sue rovine, nella sua architettura rurale e nelle facce della sua gente è possibile astrarre un qualcosa che, utilizzando una locuzione tipica di questi giorni, amplifica la sua realtà portandola sia al limite della sua significanza, che al limite del suo mistero. Quindi non è il Messico quello rappresentato da Albers, bensì il Messico trasfigurato dall’occhio fotografico di Albers. Un occhio astratto, che si era allenato nel laboratorio dei tessuti del Bauhaus dove la moglie lavorava, che aveva visto realizzarsi le prime terse volumetrie astratte e aveva visto la capacità trasfigurativa dell’astrazione non tanto nelle spesso pasticciate composizioni di Kandinskij, quanto nelle tessiture impalpabili delle tele di Klee, altro amico di Albers per altro. Allora proprio a Klee, sfogliando il libro sul Messico, è necessario riferirsi. Specialmente alle tele dipinte durante e dopo il suo viaggio in Tunisia che astraggono dai luoghi, distillandolo, lo spirito di una terra, o meglio quella che in tedesco, con un magnifico termine intraducibile se non attraverso sterili circonlocuzioni, viene chiamata la “stimmung”.
Klee nei suoi diari più volte andava affermando che il compito dell’arte è quello di evocare gli “invisibili”; un’evocazione questa possibile (ed è questo il punto) solo attraverso l’astrazione. Ma l’astrazione trasfigurante non coincide con l’esercizio compositivo, anzi è avversa ad esso in quanto si immerge nel dominio spirituale della forma. Tutte le volte che l’astrazione si è dimenticata di evocare gli invisibili, tutte le volte che ha cercato di espellere lo spirituale, tutte le volte che è diventata esercizio compositivo, didattico e didascalico ha fallito miseramente.
Ultimamente ho dato alle stampe un libro che racconta la fine di Giuseppe Terragni, un altro maestro dell’astrazione spirituale. Il libro è corredato dalle foto inedite che Terragni ha scattato in guerra, in Jugoslavia e Russia. Sono immagini potenti che indagano temi simili a quelli di Albers: le rovine (questa volta quelle della guerra), le architetture vernacolari e no, gli assoluti spazi colmi di vuoto della steppa e scene di vita militare. Tra gli scatti di Albers e quelli di Terragni (che fotografano da esuli, per cui con occhio più penetrante) esistono delle analogie non solo per quel che riguarda i temi trattati, ma anche da un punto di vista tecnico. Ma al di là di ciò il messaggio che entrambe ci trasmettono sembrerebbe essere questo: l’eidos, ovvero l’immagine-idea su cui si fonda la filosofia di Platone (per cui l’occidente) si rivela, almeno in parte, a chi sa usare le lenti dell’astrazione. Coloro i quali indossano queste lenti sanno che l’eidos si nutre di spirito e non di materia, anche se lo spirito non esiste se non incarnato nella materia. L’astrazione, per frammenti analogici può mettere in scena tutto ciò evocando, come voleva Klee, quegli “invisibili” che manovrano le immagini ben al di là dei nostri voleri. La grande astrazione, ovvero quella spirituale, è inoltre consapevole di un paradosso: riducendo le immagini alla loro quintessenza non si risolve l’enigma della forma, al contrario lo si amplifica. Nelle fotografie di Albers si sente l’eco di tutto ciò.