A Napoli! A Napoli !!
Un collage assurdo, un coro di voci stridenti. Una mappa dai confini imprecisi. Un graffito eternamente spezzettato. Un paradosso impossibile da decifrare. È come un cubo di Rubik, colto un attimo prima di essere risolto. Metropoli incompiuta, simile a un’officina di intenzioni: vasta ma compatta, confusa ma percorribile. Una polifonia che non vuole mai farsi documentare compiutamente. A Napoli nulla è finito. Vi si compie la sintesi tra l’ordine suggerito da alcuni palazzi nobiliari e il disordine della quotidianità. Nessun elemento appare fisso, nessuna forma si dichiara in maniera imperativa. Pausa e moto sono in continuo dialogo. Siamo al centro di un gioco di compenetrazioni tra muri e soglie, tra interni ed esterni, tra luci e oscurità. Lo sguardo viene continuamente ostacolato, ma può deviare verso l’alto. Vicoli angusti invitano all’introspezione. Bloccano la visuale. Ma, spesso, concedono aperture.
Napoli, ha affermato Norman Douglas, ricorda da vicino un’anfora. Che, pescata dagli abissi marini, è piena di alghe. Una selva di stratificazioni calcaree la rende irriconoscibile. Ma l’occhio dell’esperto sa vedere subito, sotto quelle stratificazioni, la bellezza originaria. Osservare Napoli è come giocare con un caleidoscopio. Forme e significati si compongono e si disfano di continuo, governati dalla forza del caso. Bastano impercettibili spostamenti, per assistere alla metamorfosi delle immagini, che trapassano l’una nell’altra, in un arabesco infinito.
Siamo in una casbah che non è possibile cogliere compiutamente nella sua verticalità temporale, in bilico tra legami con il passato e slanci verso l’avvenire. Una città che ha assunto i difetti della megalopoli: congestione, traffico, disomogeneità. Un po’ New York e un po’ San Paolo, un po’ Genova e un po’ Lagos. Con le sue miserie e le sue pazzie, i suoi canti e la sua allegria, Napoli, scriveva Anna Maria Ortese, “ci offre una misura così profonda e così preziosa del vivere vero, con quella sua familiarità che fa sorridere”. Saggia e folle, perdente e vittoriosa, è “testimone in un mondo crudele, di giorno in giorno più oscuro, di momento in momento più vero, di quella meraviglia che si chiama Poesia”. Alcune nette antitesi la caratterizzano: l’inferno e il paradiso, il dolore e il gusto per la sperimentazione. Insieme, senza soluzione di continuità, in un assemblage schizofrenico.
Analogamente a ciò che accade in quella polifonia spezzata che è la più straordinaria e visionaria raccolta “a tema” di opere d’arte contemporanea ideata da Lucio Amelio che è Terrae Motus, a Napoli si mettono in questione i principi della permanenza. Non siamo in ambiente pianificato, frutto di un programma, ma territorio dove si mette in crisi ogni progettazione forte. Qui si sgretola lo sviluppo lineare: il calcolo si dissolve in intrecci urbanistici che disarticolano ogni stabilità.
Napoli come metafora luminosa, sintomo dei continui raddoppiamenti e sdoppiamenti della geografia urbana moderna. Vi sono violate le simmetrie. Vi si sperimentano integrazioni insospettate, che disintegrano le regole razionali. Si frantuma ogni previsione. Siamo in una “città involontaria”, inintenzionale, posta al di là di ogni rigidità. Regione ibrida, che infrange le prospettive rigorose e riflette instabilità insospettate. Regno della profanazione, dove i luoghi comuni vengono contaminati dalle emergenze dell’abitare.
Benvenuti in una città, fatta di frammenti dissonanti, tra magnificenze e devastazioni: “un doppio concentrato di geografia, un ragù denso e tirato sopra una tavola sgangherata, un abito da festa sopra un corpo lacero”.Vi si impongono sedimentazioni sociali e attriti architettonici: il diseguale, il non programmato. Concentrazione e dispersione si trovano a convivere. La continuità si spezza, per deflagrare in ritmi differenti.
Tra i primi ad aver colto queste differenze, Walter Benjamin. Che, sapiente nell’indagare le modalità conoscitive insite nel movimento e nel leggere tra le pieghe delle città – selve brulicanti, grandiose e fragili, che possono rivelare miserie e meraviglie; correnti sbandate e insondabili, indistinguibili e inafferrabili, che fluiscono e si consumano; labirinti abbacinanti, capaci di modificarsi più velocemente dell’occhio che li guarda; vertiginose varietà di visioni, come graffiti incisi sui muri e incrostati dal tempo che chiedono di essere decifrati – nel 1924, insieme con Asja Lacis, è a Napoli. Rimane affascinato dalla città, che gli appare “assolutamente grigia in confronto al cielo e al mare”. Ovunque, atmosfere poco luminose: un rosso-ocra. Si percepisce una strana asprezza. Nel basamento delle rocce, sono scavate grotte, perforate da porte e da varchi, che lasciano intravedere anfratti, alloggi provvisori, depositi di merci, grotte naturali e anche giardini. “L’architettura è porosa”, scrive Benjamin. Il principale materiale di costruzione, infatti, è il tufo giallo. Che, vulcanico, venuto dagli abissi marini, capace di solidificarsi a contatto con l’acqua del mare, può determinare cavità gigantesche: voragini che si spalancano all’improvviso. Trasformata in abitazione, questa materia rende gli edifici “percorribili”: quasi irrisolti.
Secondo Benjamin, siamo dinanzi a una città che riesce a farsi metafora luminosa del destino della metropoli contemporanea. Dunque, Napoli come sintomo più profondo della vita moderna, che raddoppia e sposta di continuo la geografia urbana. Allude alle precarietà del nostro tempo. Ed è simbolo della volontà di mettere in discussione i principi della permanenza. Non è ambiente pianificato, frutto di un programma, ma territorio dove si mette in crisi ogni progettazione forte. Vi si sgretola lo sviluppo lineare: il calcolo si dissolve in intrecci urbanistici che disarticolano ogni stabilità.
Dimenticavo: Napoli è la mia città.