di Andrea Arsie
Ogni proiezione umana (quale etimologicamente è il progetto) deve necessariamente confrontarsi con la necessità di diventare, ad un certo momento della sua evoluzione, comunicabile.
La figura, ovvero l’illustrazione di un contenuto grafico, è senza dubbio l’esito più democratico di questa esigenza perché comprensibile a tutti indipendentemente dal proprio idioma linguistico.
È su questo assioma che si fonda il comune insegnamento, propinato dalle facoltà di architettura (ormai da almeno mezzo secolo) circa la necessità di formulare un codice grafico universale di segni convenzionali da rispettare pedissequamente nella rappresentazione. Ed è ancora su queste posizioni che è andata maturandosi recentemente la scienza del disegno e della modellazione digitali dell’architettura.
Questa premessa è necessaria per comprendere quanto dipendente (nei metodi e negli obiettivi) sia l’architettura dalla figura, e poter quindi intuire quali scenari potrebbe aprire il pieno sdoganamento dell’utilizzo dell’intelligenza artificiale nella creazione di immagini architettoniche (o nello sviluppo di un progetto in toto).
Il punto è: quando l’immagine si compirà del tutto come esito di una tecnica algoritmica (e già in parte lo è), l’architettura potrà ancora riconoscere in essa il proprio precipuo strumento comunicativo? Quanto e come potrà affidarsi ad essa per essere comunicata senza distorsioni o con approssimazioni (inevitabili in ogni scenario informatico) ammissibili?
Una possibile risposta può esserci fornita da un trattatello di Leon Battista Alberti: Descriptio Urbis Romae (1448-1455[1]); in esso l’umanista si pone l’obiettivo di descrivere la forma della città di Roma.
Dal XVI secolo in poi un simile obiettivo sarebbe stato assolto dal commento erudito e descrittivo di una carta della città; non è il caso di questo testo, che pur costituendo un caposaldo della cartografia moderna, evita l’uitilizzo dell’immagine per veicolare i propri contenuti.
Il breve testo albertiano si costituisce infatti di succinti paragrafi in cui si indicano le istruzioni per disegnare la carta di Roma, e in parallelo se ne descrivono i punti salienti (le “emergenze antiche”). Si definiscono gli strumenti da utilizzare per eseguire questo rudimentale rilievo urbano (l’horizon e il radius, poi ripresi in alcune pagine del poco succesivo Ex ludis rerum mathematicarum), e si forniscono delle tabelle di coppie numeriche coincidenti con le coordinate indicanti i punti strategici da individuare nel “quadrante” definito dall’horizon, per ottenere in autonomia, sul proprio supporto da disegno, la “forma” di Roma.
Il senso di questa operazione va compreso considerando che per la produzione letteraria precedente alla rivoluzione mediatica comportata dalla diffusione della stampa a caratteri mobili, la figura costituiva senza dubbio il punto di debolezza di un testo, perché maggiormente esposta alla distorsione nel processo di copia amanuense rispetto ai vocaboli: i copisti di solito non avevano competenze grafiche, e di sicuro non avevano le competenze tecniche necessarie per replicare con cognizione di causa le illustrazioni di trattati e testi “scientifici”; un rischio che la filologia albertiana non poteva ammettere.
L’immagine, dunque, non costituisce la premessa (o il supporto) ai contenuti del testo, ma il suo obiettivo. La riduzione della figura al suo metodo costruttivo consente ad Alberti di assicurarsi la giusta replica della stessa, vincolandola alla ricezione esatta del contenuto.
È un precedente assai costruttivo per la nostra epoca. Come Alberti, anche noi ci troviamo a ridosso di una nuova frontiera mediatica, che dopo ormai cinquecento anni di dipendenza dall’immagine, ci pone dinanzi alla necessità di ridiscuterne l’affidabilità. Un cambiamento di paradigma mediatico che forse possiamo affrontare proprio recuperando la stretta relazione tra testo e figura: utilizzando il primo come testimone del metodo seguito nella costruzione dell’immagine, e l’immagine come verifica della corretta comprensione del testo.
In architettura questa possibilità si dimostra tanto più proficua, perché emancipa l’architetto, almeno parzialmente, dall’eccesso di attenzioni per la cura grafica, richiamandolo invece al suo precipuo compito, cioè individuare e formulare il logos (o l’archè, da cui discende l’etimo di “architettura”) su cui fondare il progetto: quando questo è chiaro, allora anche le immagini da esso meccanicamente discese saranno di significato tracciabile.
Italo Calvino, nel celebre discorso “Talismani per il secondo millennio”, riportava in cima alla sua lista di esercizi necessari all’uomo del Duemila “conoscere delle poesie a memoria”: «perché quelle ci fanno compagnia, le ripetiamo, sedimentano». L’architetto della nuova era (tecnologica e non di calendario) dovrebbe ricordare delle architetture classiche a memoria, non nell’apparenza o solo per le soluzioni costruttive, ma per il funzionamento: guardare alla koiné classica permette di allenare la capacità di sintesi, che necessita di un chiaro processo di astrazione e selezione, ossia di un metodo.
È esattamente lo stesso processo che ha impegnato larga parte della cultura architettonica di prima età moderna (XV-XVII secolo): rieducarsi all’idioma dell’ordine architettonico non replicandone le forme ma riacquisendone il principio comportamentale. Gli ordini di Filippo Brunelleschi sono assai differenti da quelli antichi, perché in essi non cercano un modello formale bensì un principio[2], in particolare la capacità di articolare lo spazio secondo registri lessicali chiaramente gerarchici, che quindi rendono la composizione architettonica leggibile, e con essa il ruolo che le forme hanno nell’impaginato.
ISTRUZIONI PER L’USO
In conclusione a queste riflessioni proponiamo un esercizio di verifica che potrebbe aiutare il progettista a riflettere attivamente sulla questione.
A progetto concluso, si provi ad astrarre il principio (o più di uno) che vi è contenuto, e lo si scriva in un testo esplicativo; si affidi poi lo scritto nelle mani di un lettore invitandolo a disegnare in modo conseguente alla lettura. Alla fine si verifichi che il testo abbia prodotto un esito coerente (benché magari non uguale) ai principi indicati.
È importante che il disegno sia coerente (non uguale) perché se l’esito è molto prossimo anche esteticamente al progetto di cui si scrive potrebbe darsi che il testo sia eccessivamente descrittivo e che dunque astragga poco. Se la verifica non riesce, allora il testo è da riscrivere, o il progetto da rivedere perché fondato su principi non chiari e quindi non maturi; se invece la verifica riesce, ebbene sappiate che quel testo sarà molto di più un “elaborato architettonico” dei disegni che produrrete (in autonomia o con l’intelligenza artificiale).
L’immagine infatti ha un grave difetto tra gli essenziali pregi: banalizza. Banalizza l’esistenza dell’inesistente (come in ogni visione architettonica), banalizza la veridicità dell’informazione che veicola; e banalizza la ricezione di contenuti, esperiti (attraverso la vista) più che compresi. Il testo invece, come già ci ha indotto a riflettere lo scritto albertiano, richiede un attivo coinvolgimento del lettore nella comprensione dei contenuti, la cui forma è conquistata mai data per scontata.
Quando è così, nessun conflitto tra tecnologia e “arte umana” sussiste, il problema sorge sempre quando è l’uomo a sostituire la macchina, non viceversa.
L’intelligenza artificiale può quindi costituire un’occasione per rieducarci all’idea di una filologia operativa e riscoprire la “praticità” dell’umanesimo. In primis verso un’architettura che sia disciplina del linguaggio e non “scienza del progetto”: educarci alla formulazione di registri lessicali formali evade di per sé l’astrattezza dell’immagine appiatitta dalla tecnica. Servirsi del testo per poter verificare il funzionamento di una figura permette di astrarne il significato e ricondurre allo scopo proprio dell’immagine d’architettura: veicolare un’intenzione non uno sterile campionario di convenzioni grafiche.
[1] Pareri non concordi a riguardo. Si veda F. P. DI TEODORO, Descriptio Urbis Romae, in F. P. FIORE (a cura di), La Roma di Leon Battista Alberti. Umanisti, architetti e artisti alla scoperta dell’antico nella città del Quattrocento, catalogo della mostra (Roma 24 giugno-16 ottobre 2005), Milano, 2005, pp. 176-181.
[2] A. BRUSCHI, Considerazioni sulla “maniera matura” del Brunelleschi, in L’antico, la tradizione, il moderno. Da Arnolfo a Peruzzi, saggi sull’architettura del Rinascimento, a cura di M. Ricci e P. Zampa, Electa, Milano, 2004, pp. 86-122.