Souvenirs
Sono tanti puntini su una mappa. Se mi allontano, i puntini si sovrappongono. Aumento la scala e con il dito, in rosso, malamente, abbozzo un percorso. Faccio uno screenshot e mi avvio.
Per molto tempo, sono andata a letto presto la sera. Che la mattina dopo sarei andata a correre era quasi sempre una certezza. Sono bradicardica e mattiniera. Muovermi è una necessità, ma usare la mia iperattività per esplorare le città è stato un caso, per lo meno all’inizio. Ho mappato molte città italiane: prima virtualmente, annotando gli edifici architettonicamente rilevanti e creando delle macro-aeree giornaliere di interesse; poi fisicamente, con l’obiettivo di raggiungere a piedi uno di quei ‘punti’, di solito architettura contemporanea, per poi perdermi e scoprire casualmente altri luoghi. Le righe che seguono non vogliono essere universali, ma un mio bugiardino personale rivolto a chi vuole comprendere la città semplicemente attraversandola.
Percorrere le città a piedi è il modo migliore per conoscerle. Una mente organizzata può stabilire il numero di passi, chilometri, svolte e imprevisti che caratterizzano un percorso. Ma è una specie di incidente situazionista – perdersi pur avendo ben chiaro il tragitto originale, magari una svolta improvvisa, un angolo che attira l’attenzione – a creare la conoscenza consapevole della città. Il mio scopo è esplorare le città in modo diverso, ignorando le mappe o le strade battute per riscoprire spazi nascosti e provocare una nuova coscienza critica del contesto urbano.
Ritornare negli stessi luoghi più volte aiuta a radicare la conoscenza e a comprendere il funzionamento stesso dello spazio urbano, perché la città non è solo quella che si svela al nostro passaggio: è una storia stratificata nel tempo che cambia con la luce e con l’avvicendarsi delle attività. Le ore del giorno ne trasformano l’essenza stessa: mostrano un aspetto solitario e desertico al mattino, poi i congestionati arrivi ai posti di lavoro, le scuole (recentemente con i monopattini), l’assenza di ombre nella pausa pranzo, quando le strade si ripopolano e le architetture scompaiono tra le masse che le vivono. Risalire in senso inverso le vie percorse poi è necessario per una questione di prospettiva, perché le città non vivono di senso unico, ma è proprio una diversa visione della stessa strada a renderci veramente consapevoli dello spazio.
C’è un che di ipnotico, e di trascendentale (va bene, sto esagerando, ma spero sia chiaro il punto), nel camminare per chilometri osservando lo spazio. Un conto è andare, un altro è camminare; al di là della differenza semantica, è l’atteggiamento a cambiare. Camminare per il puro piacere di farlo, anche se si ha un obiettivo, ci mette in una posizione unica: pochi hanno ormai il privilegio di passeggiare, e il tempo per osservare. Il ritmo è evidentemente diverso; e lo è anche il nostro stesso orientamento: non guardiamo avanti ma giriamo la testa nello spazio. Torniamo indietro, e non perché ci siamo dimenticati qualcosa, ma perché, nell’andare, avevamo preso una strada imprevista. Le persone intorno a noi, quelle che appunto vanno, ci guardano incuriosite: spesso sembriamo imbambolati, ma siamo solo sedotti dalla città. Si è nello spazio ma anche fuori dallo spazio.
Quando esploro, quasi sempre, ascolto la stessa canzone in loop; e non perché io sia una melomane incallita, ma perché così riesco contemporaneamente a essere dentro lo spazio e ad astrarmi dalla situazione, a escludere i rumori e sentire solo la musica come sfondo dei miei passi. Quando in quella continua ripetizione non ascolto più la melodia, c’è solo un rumore bianco che mi permette di concentrarmi.
Ho mappato prima Roma, forse la città più difficile, per le dimensioni e le interruzioni, spesso imprevedibili, del tessuto urbano. Roma nella sua vastità è fatta di grandi vuoti, di macchie di verde selvatico impenetrabile. Spesso la città sembra quasi scomparire per lasciare spazio alla campagna, ma è solo la stratificazione storica e urbana, un ammasso confuso ma affascinante generato dai secoli sul territorio.
Milano è la mia città, la città che ho sempre trovato meno attraente di tutte, per un fatto basico: la mancanza di prospettive dall’alto, di uno sguardo che abbracci il paesaggio, letteralmente. Affondata nella pianura padana non permette nessuno scorcio, nessuno scenario pittoresco. Ad animarla è il ritmo stesso. A differenza dell’atmosfera eterna e sospesa dell’urbe, Milano vive delle persone che la abitano. La cosa che preferisco è uscire la mattina all’alba e vederla ancora che dorme: le strade deserte, nessun isterismo collettivo, solo qualche portinaio che porta fuori la spazzatura. In quei momenti la amo perché è solo mia.
Genova coi suoi svincoli micidiali racchiude la forza di una città storica che sembra nata in un punto sbagliato, compresso tra le montagne e il mare, dove tutte le architetture sono affastellate una sull’altra e dove le strade del centro sono dei sottili tagli nel denso tessuto urbano. Anche senza la magniloquenza contemporanea di Milano, Genova racchiude capolavori moderni (un architetto su tutti: Franco Albini) ma, con un certo understatement ligure, la scoperta di questi luoghi è nelle mani di chi cerca. Una città sottovalutata che spero quasi rimanga così per sempre.
E poi Napoli, che ha popolato i miei occhi negli ultimi anni. Prima ho girato letteralmente le spalle al pittoresco con il libro Contro il panorama per il quale, assieme a Lucia Tozzi, mi sono spinta (spesso in motorino, lo ammetto, a costo di intaccare la mia reputazione di Forrest Gump dei capoluoghi di Regione) nelle aree limitrofe, in quel grande sprawl urbano confuso e spontaneo che trascende i confini disegnati ma fa parte di quella stessa bellissima città. E poi sono tornata in centro, in occasione della vittoria del Campionato di calcio 2023, per mostrare come la città si fosse trasformata spontaneamente per questo evento unico. I luoghi che avevo evitato per paura di un pittoresco non mio sono diventati la base dei miei sopralluoghi tinti di bianco e azzurro.
Infine ho superato i confini nazionali, spingendomi a raccontare la città più indescrivibile di tutte, perché troppo descritta: New York. New York ha un grande pregio: è per natura una città fatta di non cittadini, gente che la vive intensamente per un lungo periodo e così facendo la trasforma, per poi abbandonarla. La rigida griglia su cui è costruita New York permette di adottare diverse prospettive.
Quello che ho raccontato fa parte della mia pratica professionale, ma è soprattutto un aspetto della mia personalità. È il mio punto di vista sull’attraversare le città, e una lista di consigli per l’uso. Il più importante di tutti è indossare scarpe comode.