È sempre bella la città? Ilaria Gaspari

Città flâneuse

Sono ossessionata dalle città; da sempre, e credo che lo sarò per sempre. Certo, quando mi sento molto stanca, o quando sono in treno (e spesso, dato che viaggio tanto per lavoro, contestualmente stanca) guardo scorrere oltre il finestrino sequenze di paesaggi che cambiano come fotogrammi, colline verdissime e poi boschi, un fiume ribollente sotto il ponte o la piattezza crepuscolare della pianura, e poi giardini isolati da staccionate di legno, villette e cascine; e mi astraggo a me stessa e mi lascio trascinare dalla meraviglia per varianti impossibili dell’esistenza su cui è bello fantasticare, ingannarsi con gentilezza per concedersi una piccola evasione dalle incombenze quotidiane. Capita allora che indugi a fantasticare delle meraviglie della vita in campagna. Penso alla brina sul prato la mattina presto, ai passettini lesti di uno scoiattolo che si arrampica sulla quercia, cinguettii e fremiti, silenzi e stelle. A volte arrivo a almanaccare di tenere un asino e una capretta; ma la verità è che sarò sempre, e per sempre, un’incallita cittadina. La rêverie campagnola quando sono troppo stressata mi accoglie come un rifugio, ma resta territorio onirico, meta di un’evasione impossibile; forse per indole, forse per via delle topografie della mia infanzia, che mi hanno dato la primissima idea di mondo inscrivendola sulla mappa di una Milano ancora grigia, che nessuno si sarebbe sognato potesse diventare ambita meta turistica; forse perché l’indole è il risultato anche delle nostre topografie personali, della direzione impressa ai nostri primi passi, di quello che ci è passato sotto gli occhi, delle posture inconsapevoli e delle pose volute; insomma, probabilmente per tutto questo intrico di ragioni, non sono mai riuscita a immaginare me stessa senza il riverbero delle città della mia vita. 

Sono stata una bambina pallida in una Milano scolorita dai freddi che precedevano questi anni di riscaldamento globale. Mi portavano a nuotare in una piscina sul Naviglio, ricordo fabbriche dismesse che oggi sono showroom. Imparavo dalle mie nonne parole diverse per dire la nebbia, a seconda della densità e del lucore, come nelle lingue dell’estremo nord i bambini imparano molte parole per descrivere il bianco della neve. Conoscevo i grandi cortili squadrati delle scuole pubbliche, i vialetti fra le case popolari costruite da misteriosi filantropi a inizio Novecento, i frutti ispidi degli ippocastani, i parchi, le portinerie a vista di palazzi anni Settanta con i balconi larghi, i vetri piombati delle case liberty, i cortili nascosti del centro, che si rivelavano per spiragli. E il pavé e le rotaie lucide di pioggia, la stazione tozza e finto-gotica scurita dallo smog. Milano era una città desiderata e inaccessibile, perché ero bambina e poi adolescente, perché le luci delle trattorie le guardavo da fuori. Da quella Milano ho imparato cos’è per me una città. Un posto che, esattamente come una persona, come un personaggio, ha un carattere modellato dal suo aspetto, dalla struttura che ha, dal clima; e naturalmente anche dalla gente che ci vive, che ha abitudini e storie, e fa parte di una storia che quella struttura la modella e la subisce, che vive in quel clima con la dimestichezza che spinge a inventare parole diverse per dire la nebbia, la pioggia, il mare. La severità bonaria per me era parte della città tanto quanto i cortili e gli ippocastani, la foschia e il grigio delle persiane in centro. Ho imparato, dalla città della mia infanzia, che una città va guardata e per certi versi perdonata come una vecchia amica, se si vuol continuare a volerle bene; e io, per qualche ragione, di voler bene alla città in cui vivo ho un inspiegabile bisogno. Ho imparato poi quella sensazione di scomparsa, di essere nessuno nella folla, nella metropolitana gremita farmi piccola e guardare soltanto. E sentire la riposante sottrazione di me a me stessa, esistere solo come sguardo. Un modo di stare nella città che avrei perfezionato nella terza città della mia vita, Parigi, dove ho vissuto con euforia fra i venticinque e i ventotto anni. Ci ero approdata dopo l’università a Pisa, inaccessibile nella sua vita più reale a noi studenti che però sentivamo il fascino vecchiotto e marinaro, l’odore della salsedine, lo splendore appannato di quello che doveva essere stata, le piogge disperate dell’autunno, la vicinanza dei monti e del mare, e un fiume sonnolento, a tagliarla in due, come a Milano mancava, come si conviene a una vera città. A Pisa scomparire era impossibile: la città era piccola e noi universitari ci conoscevamo un po’ tutti; forse per questo fu così inebriante la scoperta di Parigi. Anche lì c’era un fiume, e c’era una vera mistica della città, quintali di libri che non bastavano a chiarirmi il suo incanto ma me lo facevano sentire moltiplicato. Abitavo nella confusione ancora non del tutto addomesticata dall’imminente gentrificazione di Belleville, quartiere di gente arrivata da ogni parte del mondo, dove nei negozi la frutta e la verdura avevano nomi e sembianze intraducibili. La mia casa era in una stradina arrampicata in alto, ci arrivavo in bicicletta dal Quartiere latino e come attraversando una regione in treno vedevo il paesaggio della città che cambiava. In quel quartiere erano ambientati romanzi che avevo amato, il ciclo Malaussène di Pennac e soprattutto La vita davanti a sé di Romain Gary, che mi facevano da guida. Era tutta una scoperta, camminavo in cimiteri che erano parchi di memorie, mi infilavo in case museo di vecchi collezionisti, non avevo soldi per permettermi niente ma c’era sempre un cinema con prezzi speciali per studenti che dava rassegne di film che altrimenti non avrei visto mai. Lì ho scoperto che quello che avevo in un certo senso bisogno di essere, rispetto alla città, aveva un nome: flâneuse. Volevo essere occhi e passi, camminare, guardare e cercare di scoprire senza volerlo scoprire fino in fondo il segreto del fascino in cui vivevo immersa come un pesce in un acquario. Quando per amore mi sono trasferita da Parigi a Roma, altra città mitica ma incredibilmente più sorniona, per qualche ragione legata al fatto che c’ero arrivata squattrinata e mi ero dovuta mettere a lavorare a ritmo folle e senza sosta, che non avevo una bicicletta e la città era enorme e impervia, ho perso in qualche misura la possibilità della flânerie e questo mi ha intristita. E mi ha reso a lungo incomprensibile Roma stessa, dove tutto sembrava essere già successo e nessuno stupirsi più di niente. Mi sono dovuta inventare flâneuse per ritrovare i passi di una poetessa austriaca che aveva vissuto lì oltre mezzo secolo prima di me, per iniziare a vedere davvero la città dietro lo schermo che me la nascondeva; allora me ne sono innamorata, ma a condizione di riuscire a ignorare lo schermo che si frapponeva fra me e i suoi segreti, perché anche una città come Roma, di splendori e rovine da lasciare a bocca aperta, ha molti segreti, tanto più segreti quanto sono esposte in superficie le bellezze. Lo schermo che mi impediva quel contatto, e che sono riuscita a disinnescare solo quando mi sono tuffata in un passato prossimo che mi ha permesso di ignorarlo, era la patina uniforme che poco a poco, negli ultimi anni, mi sembra voglia ricoprire ogni città. Lo chiamano overtourism; potrei dire che è un’omologazione delle città in un’unica paccottiglia che scimmiotta i loro caratteri originali, svende il mistero, dà alle strade in cui luccicano i negozi una sinistra aura aeroportuale – e dire che io amo gli aeroporti, ma non quando diventano il modello a cui uniformare le città, rendendole inospitali per chi non può permettersi di pagare servizi sempre più cari, cancellando la varietà e la mescolanza di chi le abita, sterilizzandone la vitalità in un’imitazione di quello che si può vendere come “tipico”. Le città sono ancora belle, sotto questa minaccia, certo; ma sempre meno accoglienti, sempre meno contraddittorie, vere, ospitali. Sono come persone spaventate da cui tutti vogliono qualcosa, ma che nessuno vuol conoscere davvero. Mi auguro con tutto il cuore che sia solo una fase, un momento che precede un’inversione di rotta; che le città possano tornare a respirare come meritano.