Città persona città personaggio
Sono cresciuto a Bresso. Bresso confina con Milano. Arrivarci in città – passare qualche prataccio e sbucare alla California, sobborgo di Niguarda, e da lì inerpicarsi su via Ornato – significava per noi ragazzini sconfinare e raggiungere un mondo altro, anche se in realtà si arrivava soltanto in un lembo, sconosciuto ai più, di periferia.
Questo valico, questa colmabile ma enorme distanza fra il paese dormitorio, amato e straconosciuto, e la grande città, ha retto poco. Milano mi ha lusingato, e io mi sono lasciato comprare, mi sono arreso facile. Negli anni via via mi sono innamorato di Carlo Farini, dell’Isola – quella di allora, s’intende, un po’ dirocca, da malavita –, del centro dove si poteva andare la sera d’agosto a provare Burghy. Viale Zara suonava bene perché la leggenda narrava fosse la via delle prostitute, Paolo Sarpi perché c’erano i cinesi e le cineserie, via Fabio Filzi per le emozioni della Centrale, un toast prima di una partenza, o con qualcuno che arriva e riparte. Via Tadino era il perfetto controviale misterioso e silente di Buenos Aires. Siccome giocavo a pallone, la mattina della domenica con le auto in fila tagliavamo la città per raggiungere Baggio per l’Alcione, o il campo della Scarioni, fra le cascine, dove un ragazzino con la testa pelata fortissimo ci tirava scemi, o, ancora, il campo dell’Agrisport e della Dindelli, dietro via Padova, e Quarto Oggiaro e l’Afforese. Del campo del Crescenzago ricordo i panni stesi ai palazzi di fronte, e di aver calciato malamente una punizione. Queste auto, in una specie di piccola carovana, andavano nel deserto della domenica mattina: talvolta ci fermavamo a controllare su Tuttocittà – pubblicazione-mappa del mondo conosciuto che arrivava in omaggio con le Pagine Gialle, ficcata in ogni cruscotto – se per caso si stava andando dalla parte giusta.
Non ci sono santi: noi apparteniamo alla nostra città. Qualcosa ci stringe inesorabilmente ad essa, almeno per alcuni tratti della nostra vita. Lo sfondo detta il contenuto, suggerisce, rivela. La scenografia incide sulla sceneggiatura. Si tratta dell’incrocio magico fra i nostri occhi, i nostri passi e quel crogiuolo di segni degli uomini prima di noi che chiamiamo piazza, quartiere, viale, alimentari, bar, officina, stazione, case, casermoni.
Apparteniamo alla nostra città; lo so, manca una spiegazione a questa tesi. Potrei, volendo, cercarla, ma mi pare un fatto secondario, ininfluente, rispetto al miracolo che accade, ora in un minuto, ora in un decennio, passando per una determinata via lasciandoci condurre dalla nostra città che – sia Milano, ma ovviamente vale per qualsiasi città – ci guarda dall’alto come un dio visibile e ben nascosto. A tal punto le apparteniamo, che noi siamo la nostra città.
Allora, le apparteniamo o lo siamo? Fuor di logica, entrambe le cose.
Forse potrei essere un po’ più verificabile dicendo che un personaggio di romanzo è la sua città. Qui se ne può discutere più facilmente, c’è la scrittura, cristallizzazione eterea della realtà, a render conto. I caratteri dell’uno si sposano o fanno a cazzotti con i caratteri dell’altra. Lo scrittore lo sa e lo fa, più o meno consciamente, per dare al lettore qualcosa su cui riflettere, per associazione, per accostamento, contiguità. O, nel momento creativo, per avere una compagnia – o una compagna – fidata, qualcuno che si conosce bene. Quel personaggio poteva nascere e caracollare solo lì, non da un’altra parte, altrimenti era un altro personaggio, in e di un’altra città.
Nel romanzo Riviera (Fazi 2020) il personaggio principale è la sua città nella forma precisa di un preciso angolo: il tratto finale del Martesana urbano, che da Piazza Costantino si allunga sino a via Idro, prima dell’ansa che lo conchiude. Qui alcune ville, che guardano e costeggiano il canale. Una delle Riviere milanesi – nome attribuito a più posti, in effetti. Questa Milano-Riviera fa crescere Marianna Delfini e ne asseconda la vita. L’orto concluso di via Amalfi e San Mamete, che crescendo la protagonista si allarga lungo la direttiva del Naviglio che penetra in città, e qualche volta che ne esce, verso il niente. I ponti del Naviglio, via via, sono le nuove frontiere che la ragazzina supera, verso nuova vita. Piazza Costantino, Ponte Nuovo, viale Monza. E, ancora più in là, quel meraviglioso gioco di ferrovie celesti, binari sospesi della ferrovia che tracciano il cielo di via Tofane.
Allo stesso modo, nel romanzo Quasi niente (FVE 2023), i tre personaggi si muovono per Lione. Qui, ciascuno dei tre personaggi ha un suo rapporto con la città. Uno vi è nato, una vi è arrivata come immigrata, uno è ospite per un tempo breve, si sa limitato. Lione permette o non permette il loro incontrarsi, come dall’alto. Decide le trame delle loro vite, che in quell’anno preciso, il 1933, si incrociano. Lo fa apposta, coscientemente, scientemente? No, ovviamente. Sì, altrettanto ovviamente.
Non ne ho le prove, ma il quia absurdum ci prende, se non sempre talvolta, e gli va dato credito: le città che ci crescono conoscono quello che noi uomini chiamiamo “il nostro destino”. Conoscono e determinano. Con pazienza lo amministrano e lo svelano piano piano, un pezzo alla volta, con la pazienza necessaria da utilizzare con dei tipi come noi.
Quanto a me, sto bene in periferia. Feltre, Udine, via del Ricordo, via Golfo degli Aranci, via Negroli, il fondo del fondo di via Ripamonti. O quei quartieri ex paesi, Bruzzano, Affori, la Lambrate di Conte Rosso. Sto bene dove le strisce blu non sono arrivate o, se ci sono arrivate, raccontano tutta la loro pochezza, la loro volgarità, vuote come restano, del tutto inadeguate, fuori contesto. Sto bene in periferia, io sono la periferia. Quella nord dei miei anni da ragazzo, quella est e quella sud, che raggiungo da che abito a Melzo. E quella ovest, che mi tengo per le camminate di un giorno a venire, se mi saranno date. Recentemente ho scavallato, per motivi di lavoro, e sono giunto in Piazzale Segesta, via Tracia, pochi metri dallo stadio, da piazzale Lotto. L’Ovest. Ero contento di andarci.
Salito dal metrò mi sono trovato in meraviglioso vasto campo largo, sconosciuto ma in qualche modo familiare. Case sfatte e segnali di resistenza degli uomini, angoli curati, balconi, mobili in strada, accatastati. E un gran silenzio. Un bar dove una cinese con cura ordinava le brioches, come fosse in Galleria, e al contempo dava retta ai vecchi. Poi una strana libreria, dove una madre e una figlia mi parlavano in francese. Ed io in francese rispondevo loro, passato il primo spaesamento. Tutto attorno sembrava una domenica, una domenica mattina, ma non era domenica. E lo dico nel bene, e lo dico nel male. Intanto la città dall’alto e dal basso, divertita, ancora una volta mi osservava osservare.