The Brutalist L’architettura e l’ossessione

di Marco Felicioni

Sta per uscire nelle sale cinematografiche una pellicola che potrebbe presto animare le conversazioni tra architetti e appassionati del settore. Innanzitutto, una premessa necessaria a dimensionare il campo: The Brutalist non è un film per architetti. Piuttosto, è una storia che riesce a parlare, a tutti, attraverso l’architettura. Il che, a nostro avviso, è un fatto di tutto rilievo.

Il progetto d’architettura diviene qui il pretesto per raccontare non soltanto una storia privata e personale – quella del grande cantiere di una vita, con le sue complicazioni, le battute d’arresto, le difficoltà e le soddisfazioni – me anche la nostra Storia, con le sue rapide involuzioni, i mutamenti sociali, le grandi e le piccole rivoluzioni.

La narrazione si dipana a partire dalla stiva di un grande transatlantico, dove László Tóth – ebreo ungherese in fuga verso gli Stati Uniti – sgomita tra la folla per cercare di raggiungere il ponte di coperta: la traversata sta per concludersi, ci si accinge all’approdo. La camera segue la corsa, prima attraverso le viscere della nave, tra vapori e tubi metallici, poi fuori nella luce del giorno, fino ad inquadrare dal basso una Statua della Libertà a testa in giù, presagio di un sogno americano turbolento e tormentato.

La trama intreccia finzione e realtà: il protagonista è un personaggio d’invenzione, sopravvissuto a un campo di concentramento ed emigrato in cerca di fortuna. Nel suo primo incarico americano, per conto del figlio dell’industriale Harrison Lee Van Buren, dà dimostrazione della sua formazione presso il Bauhaus, progettando una biblioteca radiosa e moderna, caratterizzata da un raffinato sistema di pannelli mobili e dalla presenza di una seduta in pelle e tubolari, evidentemente ispirata alle creazioni di Marcel Breuer.

Il progetto stupisce il miliardario Van Buren, che apprezza l’intelligenza dell’architetto, tanto da decidere di affidargli un incarico determinante: la progettazione di un immenso centro culturale per la sua comunità di Doylestown. Per Toth è l’inizio del riscatto, di una parabola ascendente che, tuttavia, non è priva di momenti difficili, intoppi e incidenti di percorso. Fanno da sfondo le verdi colline della Pennsylvania, gli interni vistosamente sfarzosi, ma anche l’algido paesaggio metafisico delle cave di Carrara, dove il committente trascina il suo architetto a scegliere con cura i marmi più pregiati, come farebbe un novello Michelangelo.

Emerge tutta la fatica del creare, la difficoltà del far valere un’idea, del tenere duro di fronte agli imprevisti. La buona architettura è un’arte che prosciuga: serve tenacia per mantenersi fedeli all’origine. E di fronte alle proposte di modifica o ai tagli di budget, László Tóth è disposto a rinunciare persino al suo compenso, finanziando lui stesso parte dei lavori, pur di non scendere a compromessi formali. È disposto a subire gli abusi e la violenza del potere, in silenzio, pur di non interrompere il suo cantiere.

Il ritratto dell’architetto delinea una figura totalmente assorbita, finanche ossessionata, dall’idea di portare a compimento la sua grande opera. Al di là del tono romantico che inevitabilmente permea la narrazione cinematografica, rendendola digeribile ai più, qualcosa di disturbante intacca l’idea di architettura qui invocata: in un’era di esagerato personalismo, brandizzazione ed eroismo, prima ancora che come mezzo di affermazione personale, ci piacerebbe infatti poter tornare a guardare all’architettura come a un servizio per le persone. Il progetto del Doylestown Community Center è presentato, invece, come una sfida titanica contro le naturali inflessioni della vita, cui László Tóth non accenna a piegarsi. Ma se, viceversa, si concepisse la progettazione come un’arte del compromesso? L’architettura, insomma, come pratica fatta di partecipazione, cura, conferimento di senso. E il superamento di quel modo individualista di intenderla dovrebbe passare proprio dal racconto che ne fanno non soltanto gli studiosi, ma anche e soprattutto gli scrittori e i registri, che parlano a un pubblico più ampio e meno specialistico, spesso inconsapevole del valore di questa disciplina.

Al di là di queste considerazioni, il film rende genuinamente un omaggio al mestiere di chi progetta: ha il merito di sviscerarne la complessità emotiva, le tensioni, il senso di attaccamento verso il proprio lavoro. Il titolo rievoca quel linguaggio che contraddistingue la grande opera progettata dal protagonista: il brutalismo viene però caricato, in modo un po’ forzato, di una componente lugubre, talvolta esasperata da una fotografia cupa e fosca. Vi si proietta una sofferenza personale, espressione di quel bagaglio di esperienze che l’architetto si trascina negli anni, a partire dalla fuga precipitosa e l’emigrazione forzata: un vissuto che certamente si rifà alle biografie di Marcel Breuer, Walter Gropius, Mies van der Rohe. Ma anche le opere di Louis Kahn – peraltro ebreo e attivo in Pennsylvania, come il protagonista della storia – vengono esplicitamente prese a riferimento dal regista.

Il lungo excursus, cominciato negli anni del Bauhaus e protratto attraverso il dopoguerra, culmina con una ricostruzione della prima Biennale di Venezia del 1980, curata da Paolo Portoghesi. Un viaggio lungo cinquant’anni che, in un mondo di distrazioni e di serie tv a puntate brevi, riesce a inchiodare lo spettatore per più di tre ore e mezza davanti allo schermo, prendendosi tutto il tempo necessario a elaborare le sue ambientazioni e a caratterizzare i suoi personaggi: una capacità che è valsa a Brady Corbet il Leone d’argento per la miglior regia e che rende imperdibile la visione del suo lavoro.