È sempre bella la città? Ivan Carozzi

Il gioco dell’addio e del ritrovarsi

Quando la mattina presto esco di casa e procedo per piazza Archinto, assisto puntualmente a una cerimonia, a un rituale. Accade ormai da una decina di anni. Si tratta di un’azione che si ripete ogni giorno, di fronte all’ingresso di una vecchia scuola elementare, la “Federico Confalonieri”, all’ora in cui si entra a scuola, quindi fra le otto e le otto e venti del mattino. Mi fa un bell’effetto, mi sembra una cosa bella, un fatto non previsto, non progettato, perchè succede in un quartiere che fu un tempo ricco di vita e popolare (ci abitava anche un famoso bandito), operaio (era pieno di officine, di botteghe di ferramenta ed elettrodomestici), più o meno politicizzato (tra gli anni Novanta e Duemila esistevano una casa occupata e un centro sociale, conosciuto per le serate dub), poi bohemian e creativo (trattorie a prezzi accessibili, bar forniti di rastrelliera dei giornali -dal Manifesto al Foglio- piccolo commercio equo solidale, negozietti di artigianato, di dischi e piccole librerie), mentre nella sua ultima incarnazione gli affitti sono diventati impossibili e quasi ogni attività del passato si è eclissata, in favore di un turnover di locali, dal bistrot costoso allo street food, che aprono e chiudono, aprono e chiudono, aprono e chiudono… 

Il rituale funziona così. I genitori accompagnano a scuola il bambino, lo salutano, la creatura di un metro e trenta centimetri s’incammina verso l’edificio, varca il portone di scuola, mentre il padre o la madre, trenta-quarantenni con i capelli già grigi e gli occhi cerchiati dal sonno, anziché allontanarsi, si fermano ancora per qualche minuto, insieme ad altre decine di genitori. Qualcuno ha un cane al guinzaglio. Se piove sono lì con l’ombrello e a volte con gli stivali di gomma. Sostano, non se ne vanno. Restano sparsi in piccoli assembramenti spontanei nel bel mezzo di via Jacopo Dal Verme, proprio di fronte all’ingresso della primaria. Il bambino entra dentro il portone con lo zaino sulle spalle, gira a sinistra e monta una prima rampa di scale, dunque è già dentro la scuola, nell’edificio, nell’istituzione, è al di là di una soglia che lo separa ufficialmente da casa, dalla madre, dal padre, dalla cameretta, dai giochi, da tutto ciò che per lui è noto, sicuro, confortevole. In quell’istante di passaggio e superamento deve avvertire dentro il cuore un piccolo abisso, un tonfo, una falla, è il distacco dai genitori, ma questa perdita ha una possibilità di essere recuperata, colmata, guarita, perchè una volta salita la rampa di scale, il bambino accede a un mezzanino dove trova una vetrata protetta da un’inferriata che affaccia sulla strada, e allora il bambino si volta, si mette a figura intera di fronte al vetro, guarda verso la strada e trova di nuovo suo padre e sua madre, che sono lì ad aspettarlo per un ultimo ciao. Sollevano il braccio e la mano, lo salutano di nuovo e il bambino risponde. A quel punto il bambino, soddisfatto, dopo essersi sbracciato un’ultima volta per salutare i genitori, può inoltrarsi finalmente nella scuola, fare ingresso nell’aula insieme ai compagni, posare lo zaino e sedersi dietro il banco. 

Non tutti i genitori salutano allo stesso modo. Una volta ho visto una mamma unire le dita nel gesto del cuore e muovere i fianchi come una cheerleader. Un’altra volta ho visto un padre che aveva un orsacchiotto e al momento topico ha preso una zampa dell’orsacchiotto e l’ha animata nel gesto di un saluto, muovendo la zampetta a destra e a sinistra, davanti alla sagoma lontana del figlio schiacciata contro la vetrata. 

Lo schema della cerimonia del doppio saluto, ricorda un po’ il gioco del rocchetto descritto da Freud. Un bambino gioca con un rocchetto di legno attorno al quale è arrotolato un pezzo di spago. Il bambino non usa il rocchetto come un carrettino o come un finto animaletto da trascinarsi alle spalle, dopo aver srotolato lo spago. L’utilizzo che ne fa è diverso. È un altro tipo di gioco. Preferisce lanciare il rocchetto lontano, fino a farlo scomparire dietro la spalliera del letto, esclamando “ooh”, per poi attrarlo di nuovo verso di sé con lo spago, accogliendo il ritorno del rocchetto con un “eccolo!” di felicità. È su questo doppio movimento che si fonda il gioco: il movimento della scomparsa e del ritorno. E naturalmente Freud vede nel gioco, e nella gioia del bambino mentre riafferra il rocchetto, un surrogato del lavoro del lutto che il bambino affronta ogni volta che si separa dal corpo della madre. La cerimonia del doppio saluto può essere interpretata come un gioco dell’addio e del ritrovarsi, un gioco che il bambino rivivrà in varie forme durante tutta la sua esistenza futura. Il gioco dell’addio e del ritrovarsi è anche la costruzione quotidiana di un ricordo d’infanzia, giorno dopo giorno, in autunno, in inverno, in primavera: un rituale che resta nella memoria del futuro adulto, che resterà in qualche piega della materia grigia. Si conserverà come un fossile tra le montagne, perfino nell’adulto più algido e disgiunto dal proprio sé bambino. 

Non sarebbe stato possibile il gioco in assenza di quella vetrata nel mezzanino. Non solo. Dev’esserci stato un bambino originario, in un certo punto della storia della scuola e del quartiere, che per primo vide il padre e la madre in strada. Il bambino originario bussò sul vetro e richiamò la loro attenzione. Da quella volta in poi, per imitazione, tutti i bambini e i genitori della scuola si appropriarono del gioco dell’addio e del ritrovarsi. 

La città sopravvivono anche grazie a questi giochi e invenzioni, che nessun copione aveva previsto.