Lo ritener senza lo aver inteso: Notre Dame passio historiae

di Andrea Arsie

Come ogni intervento architettonico rilevante, anche i lavori di restauro di Notre Dame di Parigi, i cui esiti sono stati rivelati ufficialmente il 7 dicembre 2024, hanno polarizzato l’opinione pubblica. La fama è sempre portatrice di venerazione e scetticismo, e d’altronde già troppe lettere sono state digitate sul caso parigino; perciò concentriamoci su alcune considerazioni più generali, ricordando che il legame tra la società (come massa civile inquadrata in un determinato contesto cronologico e geografico) e le architetture del passato (il “patrimonio architettonico”) può essere un indicativo metro di misura della sensibilità storiografica di una generazione, ossia la capacità di resistere all’approssimazione a cui la logica binaria degli organismi informatici ci sta abituando.  

Le nostre riflessioni hanno ovviamente dei limiti, principalmente due: 

1) considerare Notre Dame un caso rappresentativo per riflettere su una questione più generale, mentre è invece chiaro fin dalla sua introduzione che la cattedrale parigina costituisce un’architettura paradigmatica per l’assioma identitario francese e, se questa parola ha ancora un senso, occidentale, dunque non è un esempio generico ma eccezionale;

2) il filtro ideologico-intellettuale attraverso cui si guarda, inevitabilmente, a una cultura “nazionale” differente dalla propria, sfocatura tanto più invalidante per la distanza storica esistente tra Francia e Italia sul terreno del restauro.

Ma non indugiamo ulteriormente, e procediamo. Degli interventi attuati sulla cattedrale di Notre Dame, il gesto su cui ci concentriamo è l’omogeneizzazione estetica delle superfici interne; l’operazione, infatti, annulla la distanza cronologica (e il carattere discontinuo) delle parti componenti la celebre architettura: gli interventi medievali, rinascimentali, ottocenteschi, fino a quelli del Duemila, sono tutti omologati nella costruzione di un’immagine fotogenica, sacrificando la narrazione della complessità storica.

Nell’età in cui circolano più contenuti (tra l’altro con l’accessibilità più permeabile di sempre), la questione è ancora una volta squisitamente metodologica: il vero punto di debolezza del restauro parigino non sta tanto nella deriva commerciale che ha assecondato (impensabile frenarla o ostacolarla), quanto nell’aver reso l’incendio di cinque anni fa un tabù. Una damnatio memoriae dell’evento. Nulla esiste di più lontano dalla storia. Una distanza che però non va giudicata ma analizzata e interpretata per poter essere superata. 

Ci si potrebbe replicare che il risarcimento dei danni comportati dall’incendio sia stato l’obiettivo dei lavori. Ed è senza dubbio vero. Ma la scelta di cancellare l’evento obbligando al déjà-vu nell’esperienza della visita non è una conclusione da dare per scontata. Sarebbe bastato lasciare una ridotta porzione muraria di una navata laterale annerita, una parte di pavimentazione rovinata, o semplicemente esporre alcuni detriti prodotti dai cedimenti delle campate centrali della basilica. Ammettere quindi un “sentore” di logoramento che avrebbe enfatizzato il miracolo tecnico della “guarigione” di Notre Dame, dando profondità all’architettura come prodotto storico e perciò mortale, feribile e dunque pulsante, ossia vivo. 

Invece al corpo ferito da studiare, analizzare, guardare e con cui empatizzare è stata preferita l’immagine statica di un manufatto da ammirare con gli occhi del pregiudizio formale, delle superficiali attese stilistiche, delle convenzioni artistiche e della astratta e “meravigliosa” distanza con cui sempre di più si guarda alla storia e i suoi prodotti. 

A confermarsi in Notre Dame, insomma, è ancora la nozione corrente delle architetture storiche come “macchine del tempo”, ossia come “scatole” diverse da quelle attuali, impossessatesi del proprio tempo di costruzione e tali quindi da permettere, secondo una suggestione comune, di rivivere attraverso l’esperienza la propria età storica (e stilistica) originaria. 

Il giudizio comune sul “tipo” della cattedrale gotica esce pertanto rafforzato dalla visita di Notre Dame, e il tempo che la comune credenza lega all’immagine della Cattedrale (il “medioevo”) dissolve gli altri che pur hanno concorso in maniera decisiva alla creazione dello spazio e alla sua narrazione storica. Eppure, ogni tempo vissuto è presente in un prodotto storico, e nel vincolare la storia ad un tempo si elude il senso stesso della storia, radicato nella circolarità delle cronologie. 

La storia, nel presente, può essere la più militante delle discipline se si pone l’obiettivo di costituire il più efficace antidoto alla “pandemia” semplicista, invitando alla formulazione di un metodo d’analisi delle cose e dei fenomeni che esse generano; di sicuro non deve costituire un bacino di nozioni sempre più cerebralmente inaccessibili.

Se recupera la consapevolezza di sé stessa come disciplina e non come professione, l’architettura può costituire la prima frontiera di questo processo: la narrazione lineare e agevole di un palinsesto esemplifica in forma plastica la concorrenza degli eventi passati nella definizione di uno stato attuale transitorio, molteplice e perciò complesso.

Bisognerebbe dunque sempre ricordarsi, nell’età del vacillare dei corsi di storia nelle facoltà di architettura, che quest’ultima costituisce il presidio più diffuso della storia; il legame collettivo con la storia dipende molto più dall’architetto che dallo storico. Non dimentichiamolo!