È sempre bella la città? Valerio Magrelli

Nel 1975 alcuni tra i maggiori scrittori italiani, romani e non, raccontarono i difetti della capitale in un libro intitolato Contro Roma. Da Alberto Moravia a Mario Soldati, da Eugenio Montale a Goffredo Parise, fu tutta una contro-sinfonia di accuse. Nel 2018 l’editore Laterza pensò di riprendere la stessa idea con autori più giovani. Partecipai a quel progetto con un lungo testo, dal quale attingo adesso per aggiornare quel sacrosanto cahier de doléances.

Comincerei col dire che a Roma manca, tragicamente manca, la figura del cosiddetto ombudsman. Mi riferisco al difensore civico preposto alla tutela del cittadino, «con il compito di accogliere i reclami non accolti in prima istanza dall’ufficio reclami del soggetto che eroga un servizio». Il termine, derivato da un ufficio di garanzia costituzionale istituito in Svezia nel 1809, significa «uomo che funge da tramite». Ebbene, a Roma, fra abitanti e amministrazione, non c’è alcun tramite. Ogni richiesta, ogni proposta è inevitabilmente destinata a cadere nel nulla. Nessuno risponde, nessuno ascolta, mai. Ecco qui, per esempio, qualche preghiera indirizzata al mio ombudsman (traducibile anche come «angelo custode civico»).

Ci sono segni che a volte uno scrittore riesce a cogliere in maniera definitiva. È appunto quanto ha fatto Ermanno Rea parlando delle strisce pedonali. Il risultato è tanto più notevole poiché, a cominciare da Baudelaire, la letteratura si è sempre mostrata sensibile verso l’uomo gettato nel pericolo mortale del traffico: basti citare la prosa in cui il poeta francese descrisse un suo collega che, attraversando la strada, preferisce perdere la propria aureola pur di non venire investito. Chi è esposto alla prepotenza più del pedone? Appunto per proteggere questo essere indifeso sono nate le strisce, che nel romanzo Napoli ferrovia (Rizzoli 2007) Rea definisce come un vero e proprio «simbolo della democrazia».

Ciò spiega quanto sia grave la situazione a Roma, dove quei preziosi segnali stanno svanendo senza che nessuno se ne prenda cura. Addio codice a barre della nostra civiltà, addio bandiera del nostro patto sociale! Sono anni che il Salone Internazionale della Sicurezza Stradale giudica le strisce dell’Urbe tra le più pericolose d’Europa. Del resto, per poter funzionare, un sistema comunicativo deve essere percepibile. Come ubbidire a un messaggio che invece giunge a malapena, o non arriva affatto? Le strisce, dunque, non devono apparire come un vago rumore di fondo, ma spiccare violente come uno squillo, un urlo, una minaccia che terrorizzi l’automobilista, più ancora che convincerlo.

Punire perché il colpevole serbi il ricordo del suo misfatto. Nietzsche:«Si incide a fuoco qualcosa affinché resti nella memoria: soltanto quel che non cessa di dolorare, resta nella memoria». Applicare il tutto ai guidatori che investono i passanti sulle strisce – e all’amministratore che quelle strisce ha lasciato scolorare. La mancanza di manutenzione delle zebre non solo espone i pedoni alla morte, ma sancisce la fine di ogni protezione per i deboli. E dire che sarebbe sufficiente un secchio di vernice…

Si impone poi un’ulteriore riflessione, relativa all’impunità con cui decine di ristoranti senza permessi, invadono lo spazio pubblico destinato ai pedoni o alle auto. L’Italia in genere e Roma in particolare non hanno mai brillato per senso civico. La nostra storia di oppressi non consente ancora di percepire lo Stato come qualcosa che ci appartiene realmente. Lo spazio della strada, per esempio, non viene considerato come proprietà comune, bensì alla stregua di un luogo di nessuno, e dunque a disposizione del più svelto e prepotente, in grado di appropriarsene prima degli altri. Perché qualcuno, è ovvio, prima o poi se ne deve impossessare, no? Ecco la vera origine dei cosiddetti «dehors», covid adiuvante.

In francese, dehors vuol dire «fuori». In italiano anche, ma a Roma, invece, significa «fuori dalla legalità». C’è di che rimanere sbalorditi, vedendo, più ancora che la sfrontatezza di chi divora metri e metri di suolo pubblico, l’inadempienza di chi fa rispettare le leggi. Ogni tanto i vigili effettuano un controllo. Bene? Niente affatto. I controlli non devono avvenire a casaccio, bensì in maniera costante e ininterrotta. La legge non è un numero del lotto da estrarre un giorno al mese o all’anno, bensì un’indicazione inflessibile, che va seguita sempre. Morale: pochi parcheggi e molti dehors, sempre meno pubblico e sempre più privato – a cominciare ovviamente dai beni comuni quali istruzione o acqua. Ma questa è un’altra storia.

C’è inoltre l’eterna questione dell’Ama. Tengo qui a riportare quanto recita una lapide marmorea del Settecento davanti a casa mia:

«D ORDINE DI M. ILLMO EREMO PRESIDENTE DEL STRADE SI PROIBISCE ESPRESSAMENTE A TUTTE E SINGOLE PERSONE CHE NON ARDISCHINO GETTARE IMMONDIZIE DI SORTE ALCUNA NE FARE IL IL MONDEZZARO IN QUESTO VICOLO SOTTO PENA DI SCUDI DIECI ET ALTRE PENE CORPORALI COME DALL’EDITTO EMANATO SOTTO IL XX GIUGN MDCCXLVI PER LI ATTI DELL’ORSINI NOTARO DELLE STRADE».

Da quando ho traslocato (oltre una trentina d’anni fa), il mio portone è usato come discarica pubblica. Dal 1746 (ma chissà per quanto tempo nei secoli precedenti l’affissione della targa), generazioni di miei pre-inquilini hanno lottato contro il genius loci dell’immondizia. Napoleone non era ancora nato. E dunque mi devo rassegnare all’evidenza: abito in un antico sacrario del pattume. E penso a Tlazoltéotl, ossia «colei che divora l’immondizia». Legata alla sfera simbolica della purificazione, questa divinità azteca presiedeva ai riti di smaltimento-rifiuti. Mi ritrovo a invocarla ogni giorno affinché guidi la rotta di Roma, città-fuscello abbandonata a se stessa nel millenario fiume della sua putredine.

P.S. Eppure, nella mia totale ignoranza, nella mia assoluta incompetenza, continuo a chiedermi: perché non fare come fanno gli altri? Così come i cinesi imitano il made in Italy nella moda e in cucina, perché non imitiamo le altrui amministrazioni più virtuose della nostra? Non proporre, non pensare, ma copiare, copiare, copiare.

Termino infine con le molestie acustiche, ma qui non basterebbe un libro. Cos’è questo sussulto travolgente, un pulsare profondo e inesorabile, un’indistinguibile valanga di musica e parole? Sono due allegri musicisti di strada che stanno pompando musica techno a tutto volume, ma potrebbe essere un quartetto di fiati o uno stornellatore. C’è forse un party privato? Niente affatto. L’onda d’urto che spazza la zona limitrofa, il boato, il cratere di suoni che si abbatte con violenza sull’indifeso mondo circostante, è il frutto di uno sciagurato amministratore che ha permesso l’uso degli altoparlanti agli artisti di strada. L’uso degli altoparlanti! Ma come è possibile anche soltanto concepire l’idea di violare lo spazio dell’ascolto in modo tanto gratuito, criminale e diseducativo?

In un mondo che regolamenta accuratissimamente ogni tipo di emissioni via etere (radio, televisioni, cellullari), l’uso della sfera acustica è invece rimasto del tutto tribale. A molti, purtroppo, il silenzio appare come le praterie del selvaggio West: una terra di conquista, un bottino da spartire, una preda indifesa. È noto che il diritto distingue tra le cose che appartengono a tutti («res totius»), e quelle che non appartengono a nessuno («res nullius»). Ebbene, le frequenti dimostrazioni di disprezzo per lo spazio uditivo della collettività, nascono appunto da questo indebito scambio. Difatti [qui c’è un’intera pagina censurata su consiglio del mio legale].

Come per l’immondizia abbandonata in mezzo alla strada, il bene comune viene percepito alla stregua di una discarica, di una zona franca messa a disposizione del più forte. Questi fenomeni di aggressione sonora esprimono una pericolosa assuefazione alla prepotenza, la stessa che, sia pure in forme diverse, caratterizza tanti altri aspetti degradati della nostra società. Sono banali cenni di educazione civica, anzi, direi piuttosto di ortopedia civica, senza i quali, però, non si dà convivenza, ma pura, darwiniana sopraffazione – e si noti come non ho affatto menzionato l’aberrazione massima, rappresentata dalle sirene di auto o appartamenti. Anche perché [qui c’è un’altra pagina censurata su consiglio del mio legale].

Per questo vorrei concludere con quell’autentico inno al rispetto per l’altro intonato da Kant. Già duecento anni fa, il filosofo tedesco condannava le arti dell’udito e dell’olfatto per il fatto di imporre la propria presenza a soggetti non consenzienti: «Alla musica è propria quasi una mancanza di urbanità a causa della proprietà che hanno i suoi strumenti di estendere la loro azione sul vicinato, per cui essa si insinua e va a turbare la libertà di quelli che non partecipano all’intrattenimento […] È pressappoco come del piacere che dà un odore che si spande lontano. Colui che tira fuori dalla tasca il suo fazzoletto profumato, tratta quelli che gli sono intorno contro la loro volontà».

Quando un simile appello comincerà ad essere compreso, allora, e solo allora, potrà darsi una comunità davvero democratica, capace di compiere fino in fondo il precetto cristiano, ma perfezionandolo, passando cioè dall’antico: «Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te», al più amorevole: «Non fare agli altri quello che essi non vorrebbero fosse fatto loro».