di Mauro Sullam
Architettura, scuola e città stanno attraversando un momento difficile e, anche per questo, molto interessante. La richiesta di svolgere una prolusione su questi tre temi, e sulle relazioni che li legano, risulta quindi non casuale e senz’altro opportuna, oltreché coerente con la tradizione della Facoltà di Architettura Civile.
L’architettura italiana è ormai lontana dalla centralità che ha vissuto in passato: nelle pubblicazioni internazionali degli ultimi dieci anni, gli esempi italiani in diversi ambiti, primo fra tutti quello urbano-residenziale, si contano sulle dita di una mano, e sicuramente non godono della stessa visibilità rispetto a quelli nord-europei, spagnoli e portoghesi, per citarne solo alcuni. I più importanti progetti urbani, in Italia, vengono spesso affidati a grandi firme straniere, come se quelle locali non garantissero lo stesso prestigio o non fossero in grado di affrontare la complessità dei problemi posti.
Milano è al centro di grandi trasformazioni, sia fisiche che sociali, che ne stanno mutando la forma e i rapporti. Con la delocalizzazione dell’industria pesante, si sono liberate grandi aree che sono l’oggetto più evidente, ma certo non l’unico, della pianificazione e degli investimenti immobiliari. Ciò che va attentamente verificato è la natura e la qualità di questi processi, la cui riuscita non è semplicemente legata alla novità o alla grande dimensione, come spesso viene lasciato intendere da chi li promuove.
La scuola non è estranea a questi mutamenti profondi, ed è contemporaneamente coinvolta da riforme che minacciano tagli e guerre accademiche nel segno ambiguo dell’eccellenza.
Nell’ultimo decennio, a Milano non sono mancati i progetti interessanti: si pensi al Concorso “Abitare a Milano”, che ha già prodotto i primi esiti concreti ed è una delle poche iniziative ad aver affrontato la questione dell’alloggio sociale con accuratezza e rigore, sia nei bandi che nelle interpretazioni progettuali. E ancora: la nuova sede dell’Università Bocconi (Grafton Architects, 2008), il rinnovamento del Teatro Franco Parenti (Michele De Lucchi, 2008), la nuova sede del Liceo Francese (Atelier 9, 2007), la ristrutturazione per gli headquarters Dolce & Gabbana (+Arch, 2006), la Mediateca di Santa Teresa (M2P Associati, 2003), le torri di edilizia convenzionata al Portello (Cino Zucchi, 2002).
Questi episodi positivi appaiono tuttavia come eccezioni in un contesto segnato da fenomeni preoccupanti, per la mediocrità dei risultati e per le scelte strategiche e sociali che incarnano, troppo subalterne alle logiche della rendita immobiliare.
La nostra Facoltà ha riflettuto costantemente, nei laboratori, nei corsi e con la ricerca, sul presente e sul futuro della città e del territorio. La compresenza di scale, dall’inquadramento generale al dettaglio, la contestualizzazione storica e sociale del progetto urbano e la messa a punto di un programma delle attività strategico e non solo pragmatico e quantitativo, definiscono un’identità che Bovisa ha costruito nel tempo, ereditando in questo le istanze di profondo rinnovamento di cui alcuni studenti e giovani docenti di Architettura si sono fatti promotori negli anni sessanta e settanta.
Quest’ampiezza di sguardo costituisce senz’altro un valore che la nostra Facoltà offre agli studenti: ciò su cui oggi ci interroghiamo, a fronte dei grandi cambiamenti avvenuti sulla scena locale e internazionale negli ultimi vent’anni, è se gli strumenti, i metodi e i riferimenti utilizzati abbiano subìto un adeguato processo di attualizzazione e ripensamento. Ciò che si rischia, non sottoponendo il proprio percorso ad un verifica costante, è di allontanarsi dal presente, dai problemi che pone e dalle opportunità che offre: una perdita di incisività e di aderenza che va, credo, nella direzione opposta a quanto fu rivendicato quarant’anni fa.
La preoccupazione – mia e di molti studenti – è che Bovisa si sia sottratta a questo processo di revisione, che abbia mancato l’appuntamento con il presente, forse timorosa di disperdere la propria eredità teorica, di lasciare gli studenti in balìa di una contemporaneità vista come caotica ed irragionevole.
Per circostanziare quanto affermato, vorrei partire dai Laboratori di Progettazione. Nelle Lauree Magistrali, quindici su diciotto sono condotti da Docenti con più di sessant’anni; molti hanno la medesima formazione accademica, in cui ricorrono maestri come G. Canella, G. Grassi, E. N. Rogers, A. Rossi.
Presso la Laurea Triennale l’età media dei docenti si abbassa da sessantadue a cinquant’anni: non di rado, però, anche i più giovani faticano a smarcarsi dai riferimenti, pur nobili, dei padri, e costruire una linea più autonoma.
In altri atenei europei, gli studenti orientano la scelta dei laboratori da frequentare attraverso l’osservazione dell’opera realizzata da ciascun docente (si pensi, per esempio, all’Università Politecnica di Madrid): a Bovisa, la decisione si basa per lo più su testi teorici di riferimento, e su tendenze che si differenziano soprattutto all’interno dell’ambito accademico, più che essere verificate mediante tentativi concreti. Ci sono ragioni che hanno determinato storicamente e culturalmente questa distanza fra professione e docenza, fra realtà ed elaborazione teorica: esse riguardano le vicende personali, il mercato, il rapporto con la tradizione – così travagliato in Italia – la concorrenza fra professioni ed altri aspetti che qui non mi è possibile approfondire.
A ciò si aggiunge la diffidenza nei confronti del professionalismo e la volontà, sempre manifestata dalla nostra scuola e ampiamente condivisibile, di non assecondare le mode bizzarre ed inconsistenti di certa architettura contemporanea.
Per quanto queste ragioni non siano prive di correttezza e costituiscano una peculiarità da non disperdere, Bovisa ha bisogno di riavvicinarsi alla materialità degli spazi costruiti e costruibili, di recuperare una dialettica equilibrata fra postulato ed esperimento, di rintracciare esempi positivi che operino qui ed ora, di guardare al presente con fiducia e generosità. Non esiste altro modo di stare nella contemporaneità. L’ammirazione per il passato e la volontà di non compromettersi eccessivamente non possono diventare un freno: ne patisce, in fondo, anche la stessa elaborazione teorica.
Attraverso altre osservazioni, e alcune proposte, vorrei provare a indicare in che modo la nostra Facoltà potrebbe tornare a occupare una posizione rilevante e credibile nel dibattito sul futuro della città.
Per quanto concerne i laboratori di progettazione credo che, per il triennio in modo particolare, sia utile definire un percorso più organico e consequenziale, che di anno in anno porti lo studente ad affrontare questioni caratterizzate da una scala e da una complessità crescenti. Partendo dagli spazi dell’abitare, che forse meriterebbero più attenzione, si procederebbe gradualmente verso le strutture collettive, gli spazi pubblici e la pianificazione di parti di città. Attualmente, alcuni studenti del primo anno si trovano impegnati in progetti difficilmente gestibili per il loro livello di formazione, come masterplan, musei e sedi universitarie. Pur senza una rigidità eccessiva, è bene recuperare una certa gradualità, delegando ad altri corsi l’introduzione ai temi più vasti.
Una seconda considerazione riguarda il problema del ricambio generazionale: il turn-over è senz’altro reso difficile dalla scarsità dei fondi a disposizione, ma Bovisa può già dare segnali concreti di fiducia nei giovani, e a costo zero. Un provvedimento possibile, a tal fine, è quello di aumentare il numero di giovani docenti alla conduzione dei Laboratori di Laurea Magistrale, spostandoli dalla Triennale e scambiandoli con docenti più anziani che attualmente conducono laboratori nel biennio.
Credo che la responsabilità di coordinare l’elaborazione di parte delle tesi Magistrali, darebbe ai giovani docenti una spinta maggiore a cercare una propria via al progetto. I giovani docenti, e gli studenti ancora di più, si sono formati in un periodo rispetto al quale la prima metà del Novecento, o l’intero secolo, è già storia: questo è vero sia per un mero fatto cronologico (tra soli nove anni, le matricole non saranno nemmeno più nate nel XX Secolo), sia per i profondi cambiamenti sociali e politici degli anni Ottanta.
Risulta quindi naturale che essi abbiano maturato una sensibilità diversa dalle generazioni precedenti; inoltre, molti non hanno potuto operare una scelta esclusiva fra accademia e professione, poiché spesso nessuna delle due assicura, da sola, l’autosufficienza economica. La necessità di contemperare queste due attività, d’altra parte, favorisce proprio quella sinergia fra teoria e prassi di cui si diceva poc’anzi.
La storicizzazione del Novecento, tuttavia, non è ancora stata recepita a pieno nella nostra Facoltà: il “Secolo Breve”, in particolare fino agli anni ’70, viene ancora considerato come la soglia di attualità oltre la quale esiste solo un presente indicibile. Allo stesso tempo, le epoche precedenti vengono compresse in corsi di Storia in cui si viaggia alla velocità di un secolo a lezione, oppure relegate a corsi opzionali scarsamente frequentati. Gli autori del Novecento, soprattutto quelli che sono stati i maestri diretti dei nostri docenti, sono prigionieri di un’aura eroica e di un’aneddotica che ne rende difficile la contestualizzazione storica e il superamento. È E’ necessario spostare in avanti i confini della contemporaneità, in modo da comprendere finalmente l’attuale decennio e i suoi protagonisti.
Questo cambiamento non riguarda però solo i corsi di Storia dell’Architettura (che, in alcuni casi, hanno già promosso interessanti iniziative a riguardo) ed i laboratori di progettazione: l’attività di ricerca può giocare, qui, un ruolo di primo piano.
Bovisa ha la possibilità di diventare un punto d’incontro internazionale fra gli studenti e i progettisti più attivi e capaci: esistono centinaia di studi che lavorano con passione ed efficacia, e coglierebbero volentieri l’opportunità di fare ingresso nella cultura accademica attraverso mostre, seminari, conferenze e pubblicazioni. Gli studenti desiderano fortemente che la Scuola li aiuti ad individuare maestri che operino nella contemporaneità: vogliono conoscerli, sentirli parlare e seguire il loro lavoro. Al contempo, i professionisti più sensibili sono capaci di cogliere le idee e le critiche che solo l’Università sa mettere in campo. Il mio pensiero, più che alle archistar, è rivolto agli architetti giovani, e più in generale a quelli che non sono stati resi irraggiungibili dalla notorietà.
La ricerca di buoni esempi va affiancata da un’attenta e spregiudicata analisi della realtà, priva di filtri ideologici o stilistici, di omissioni e pregiudizi. Come ho ricordato in apertura, la nostra Facoltà ha già messo a punto un metodo che le permette di concepire l’opera d’architettura non come un oggetto isolato, ma come parte di un sistema di relazioni che si dipana nello spazio e nel tempo: la conoscenza del contesto e della storia è il completamento necessario di una progettazione che si voglia consapevole ed attenta ai bisogni della società. A rafforzamento di questa impostazione, Bovisa può iniziare a organizzare corsi, condurre ricerche, produrre tesi di Laurea e di Dottorato sulle più recenti trasformazioni del territorio, anche e soprattutto quelle più preoccupanti e problematiche.
Da noi, infatti, sono molte le controproposte progettuali, ma troppo pochi i lavori che, con rigore e competenza, raccontino cosa sta succedendo, in che quantità e con che caratteri. Penso ad aree come Porta Nuova, le ex-Falck, CityLife, gli scali dismessi, Santa Giulia, Milano Sud. Ma anche a fenomeni più polverizzati come le superfetazioni e i parcheggi interrati. Non solo questo darebbe un adeguato supporto alla proposta di alternative, ma avrebbe anche un influsso positivo sul grado di concretezza e precisione di queste ultime. In tal modo, si rafforzerebbe il ruolo della nostra Facoltà quale osservatorio credibile e puntuale sulla città.
Fin qui è stata proposta una generale attualizzazione dei metodi e dei contenuti: essa è determinante, ma deve fondarsi su solide basi, su invarianti che caratterizzano da sempre la formazione dell’architetto, come tecnico e come persona: penso prima di tutto al disegno manuale, si tratti di schizzi ideativi, copia dal vero o rappresentazioni tecniche. Accanto a una maggiore apertura verso gli strumenti informatici più avanzati – siano benvenuti rendering, video e quant’altro aiuti ad esprimere con un linguaggio contemporaneo le idee progettuali – torniamo dunque a dare alla matita e ai colori lo spazio che si meritano, attraverso corsi e seminari specifici.
Tutto ciò che passa dal corpo, dalla mano, è garanzia di una presenza solida e libera sulle cose. E il corpo deve tornare protagonista anche nell’esplorazione e nella progettazione del territorio: per questo, è auspicabile che i docenti diano sempre più spazio alle lezioni itineranti, affinché gli studenti vengano educati, sul campo, a conoscere ed interpretare la realtà che li circonda.
Una lezione peripatetica nei dintorni del nostro Campus insegnerebbe forse più cose di tanti seminari sui sogni infranti nella Goccia, e aiuterebbe a ritracciare il giusto confine fra architettura e pianificazione. Bovisa diventi, dunque, “massimamente digitale e massimamente analogica”, riuscendo a trovare la giusta sintesi di due dimensioni che sono solo apparentemente inconciliabili.
Ci sarebbero, è certo, molti altre questioni di cui parlare: per il momento, spero di aver fornito un contributo che, per quanto incompleto, sia utile a far emergere pienamente i termini di un dibattito da tempo latente nelle aule della nostra Facoltà.
26 febbraio 2011