di Marco Biraghi
Domenica 11 settembre 2011 è stato inaugurato a New York il Memoriale cittadino di Ground Zero. Esso consiste in due grandi fontane quadrate di granito, scavate fino a una profondità di quattro metri, in corrispondenza del sito su cui sorgevano le Twin Towers. L’acqua scorre lungo le quattro pareti inclinate verso una grande vasca interna, che al centro presenta un’apertura a sua volta quadrata. Lungo il perimetro delle fontane, su placche di bronzo, sono incisi i 2752 nomi delle vittime dell’attacco al World Trade Center. Tutto intorno, la Memorial Plaza, uno spazio lastricato di granito piantumato con centinaia di querce bianche.
Il progetto è dell’architetto israeliano Michael Arad e dell’americano Peter Walker. È denominato Reflecting Absence.
Lasciando perdere l’inutile pletora di grattacieli che si sta via via aggiungendo a quelli già esistenti nella Lower Manhattan, lungo due lati di Ground Zero, e tralasciando pure la nuova stazione dell’underground di Santiago Calatrava, sterilmente zoomorfa, viene da chiedersi: che cosa comunica questo Memoriale? che cosa significa? Per certi versi, al pari del Vietnam Memorial Wall di Washington, realizzato nel 1982 su progetto dell’allora giovanissima scultrice americana Maya Lin, esso si misura con il non facile compito di evocare il silenzio e l’assenza. Nel caso del Vietnam Memorial, tuttavia, l’effetto dei 58.000 e più nomi incisi sulle due colossali pareti di granito nero, ai piedi delle quali il visitatore si muove, risulta del tutto diverso e – viene da dire – assai più efficace, rispetto a quello promesso dal Memorial newyorkese. Qui infatti non soltanto i nomi incisi sulle bronzee balaustre delle fontane sono (per fortuna) molti meno, diminuendo con ciò il senso di smisuratezza che rende invece tanto potente il messaggio del monumento di Washington; ma inoltre essi non sono neppure, a guardar bene, oggetto esclusivo dello sguardo dei visitatori, dal momento che – ancora una volta, differentemente dal Vietnam Memorial, dove l’occhio è “costretto” ad arrampicarsi su uno strapiombo verticale di nomi – a Ground Zero lo sguardo è invitato a scorrere piuttosto in orizzontale, incontrando via via la pietra, l’acqua, le querce e la città tutto intorno.
Al di là di questo confronto, comunque, è significativa l’insistenza, anche nel caso del Memorial di New York, sul tema dell’assenza (in quanto al silenzio, sarà tutto da verificare). Non è difficile indovinare il senso della titolazione per gli architetti, per i committenti, per la cittadinanza newyorkese, per il popolo americano e per gli abitanti di pressoché l’intero pianeta: l’assenza “che riflette” il Ground Zero Memorial è evidentemente quella degli edifici del World Trade Center e delle persone che vi hanno perduto la vita. Tuttavia, vi è un’altra assenza, non meno vistosa – e fors’anche più significativa – che va rilevata, e su cui vale la pena riflettere: si tratta dell’assenza di qualsiasi “iconografia” capace di rendere emblematico in modo eloquente l’evento al quale il luogo è dedicato, ovvero l’assenza di qualsiasi capacità simbolica da parte dell’architettura chiamata a rievocarlo.
L’evento della morte (e in particolar modo, della morte violenta) ha sempre rivestito un ruolo fondamentale lungo tutto il corso della civiltà. La tomba (sia essa una sepoltura nel terreno, oppure un sarcofago, una tholos o un mausoleo) e il monumento funebre (memoriale o cenotafio) ne sono state le forme principali, attraverso cui nella storia si sono commemorati i defunti. È questo un passaggio decisivo per l’intera comunità umana: nella tomba (e nel monumento funebre) si compie infatti una trasformazione essenziale, la “trasfigurazione” del defunto in eroe. Il morto cessa cioè di essere “soltanto” un morto, per divenire un elemento sacrale di polarizzazione collettiva, un oggetto di adorazione e di culto. Non è un caso, in tal senso, che tombe e monumenti funebri siano stati il nucleo originario da cui si sono sviluppati i templi e gli altari. Come ha ampiamente illustrato René Girard nei suoi libri, è a partire dalla tomba che si è venuta formando la civiltà in tutte le sue articolazioni e istituzioni: «È sempre come tomba che si elabora la cultura. La tomba non è altro che il primo monumento umano eretto intorno alla vittima espiatoria, la culla primigenia delle significazioni, quella più elementare e fondamentale. Non c’è cultura senza tomba, non c’è tomba senza cultura: la tomba è al limite il primo e l’unico simbolo culturale» (Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, Adelphi, Milano 1983, pp. 108-109). Nel corso del tempo la tomba-tempio ha acquisito un proprio linguaggio espressivo, l’ordine architettonico, che – come ha dimostrato George Hersey in Il significato nascosto dell’architettura classica – tanto da un punto di vista semantico quanto da un punto di vista materiale rivela il proprio rapporto analogico con un corpo (umano o animale).
Per gli antichi, dunque, il luogo di culto della morte, la tomba-tempio, era costituito dall’assemblaggio – più o meno letterale o metaforico – delle parti del corpo della vittima o dei “resti” sacrificali (dentelli, gocce, uova, frecce, ghirlande, bucrani, telamoni, cariatidi). Per gli uomini del Medioevo la morte era invece da manifestare attraverso i simboli della rivelazione cristiana: innanzitutto la croce, e poi la figura umana (come accade nel caso di Cristo o dei martiri). E se gli architetti del Rinascimento hanno continuato ad attribuire alla morte la dignità degli ordini classici, ripresi da quelli antichi pur senza più comprenderne il senso, e gli architetti “visionari” francesi della fine del ‘700 hanno utilizzato le forme solide “assolute” della piramide e della sfera per i propri cimiteri e cenotafi, durante il XX secolo – e ancora di più al giorno d’oggi – l’architettura sembra avere smarrito la capacità di farsi immagine piena dell’evento luttuoso. La rinuncia all’impiego del tradizionale repertorio iconografico religioso, sotto tale profilo – nei memoriali a cui qui ci si è riferiti, ma anche in altri, quali quello all’Olocausto degli Ebrei d’Europa, realizzato a Berlino da Peter Eisenman -, più che una dimostrazione di “laicismo” o di un atteggiamento di equidistanza confessionale “politicamente corretto”, pare rivelare l’imbarazzo nel fare ricorso a forme troppo esplicite. Il “riserbo” dell’architettura contemporanea sul piano simbolico mette in evidenza la sua attuale difficoltà ad articolare un linguaggio che riesca a essere chiaro, diretto e scopertamente espressivo.
Non è forse casuale, in questo senso, che alla pur contegnosa forma del grande “muro del compianto” di Washington (e a quella altrettanto severa, quasi muta, delle steli monolitiche ripetute e variate nel Memoriale eisenmaniano di Berlino), a New York si sia preferita la non-forma (ovvero la forma in negativo) delle due fontane quadrate, vale a dire l'”impronta” al suolo delle due torri gemelle. Per il resto, in esse non rimangono che la pietra, gli alberi e l’acqua (quest’ultima, significativamente, nella “forma” perennemente mobile e instabile della falling water) a dare sostanza alla materia simbolica del Memoriale: ovvero, in tutti e tre i casi, elementi naturali, programmaticamente estranei alla sfera culturale dell’uomo.
E poi, naturalmente, vi sono i nomi. La scelta dell’enumerazione dei nomi (e dei cognomi) sottolinea il senso della morte a cui la nostra società è più avvezza – o forse addirittura l’unico alla quale lo sia davvero: la morte come fatto personale, individuale, come atto dello stato civile, cui dare espressione mediante le “generalità” specifiche, i caratteri identitari (il nome e il cognome, appunto) che fanno di ciascuno di noi (fatte salve le omonimie) un individuo unico. In questa prospettiva, solamente nella molteplicità dei nomi, nella loro ipotetica somma – ovvero nella loro totalità – il fatto individuale giunge a farsi emblema collettivo, diviene rappresentazione sociale.
Difficile affermare se nel World Trade Center Memorial tutto ciò abbia luogo. Ancora troppo presto per dirlo. Quanto risulta al momento evidente, in ogni caso, è che esso costituisce – per ricorrere a un fin troppo facile gioco di parole – il ground zero della rappresentatività simbolica dell’architettura: l’epicentro, il punto d’origine, nel quale massimi risultano gli effetti distruttivi di una deflagrazione, massimo lo “svuotamento”. Con l’unica avvertenza di non spingersi oltre nel gioco di parole, assimilando troppo facilmente il ground zero con il “grado zero” di Roland Barthes. Se infatti il degré zéro de l’écriture si identificava con il linguaggio parlato, il ground zero dell’architettura segna piuttosto il distacco apparentemente incolmabile tra quest’ultima e qualsiasi lingua corrente, viva, vitale. Di fronte agli impegni ufficiali, celebrativi, commemorativi – in una sola parola, di fronte agli impegni simbolici – l’architettura attuale fatica a esprimersi in maniera genuina, spontanea, e si riduce spesso a parlare una lingua impacciata, che incontra non poche difficoltà a farsi capire.
17 settembre 2011