Non sono certo di essere in grado di sancire se una determinata architettura sia bella o brutta, né sono certo di sapere cosa significhi con esattezza dire che qualcosa sia bello, escludendo le mere questioni di gusto. Quello che mi sembra più semplice fare – e che mi pare anche più opportuno ai fini della critica – è capire e cercare di motivare se ciò a cui ci troviamo di fronte sia o meno un’architettura: non si tratta quindi di attribuire delle qualità all’architettura ma considerare essa stessa una qualità.
Nel 1992 il progetto di un team di architetti guidato dal professor Luigi Chiara vince un concorso indetto dal Politecnico di Milano per l’insediamento di una nuova Facoltà di Architettura all’interno dell’ex area industriale della Bovisa. Il tema – quello del recupero e riuso di un’area industriale dismessa – costituisce spesso e volentieri un’occasione per gli architetti di dare prova della propria abilità e verve nel fare interagire il progetto del nuovo con il preesistente. Le grandi aspettative che si potrebbero avere nei confronti di una tale occasione, data anche l’importanza culturale del committente e l’obiettivo del progetto (non semplicemente la costruzione di un nuovo campus universitario, ma di una scuola di architettura) sembrano tuttavia, a distanza di anni, tragicamente deluse.
Lo studio della luce, l’articolazione degli spazi, l’ergonomia, l’estetica: tutto ciò che rende un edificio architettura pare essere qui sadicamente trascurato. La ripartizione degli ex-capannoni non segue alcun principio se non quello del minimo sforzo di pensiero (e di portafogli), tanto che il disegno della pianta sembra più il prodotto di un processo meccanico o di un burocrate del catasto che di un architetto. La maggior parte delle aule non è illuminata da altra luce all’infuori di quella pallida e sfarfallante dei neon, visibilmente sospesi alle travi del soffitto con gli impianti elettrici e i tubi di condizionamento. L’obiettivo è la ricerca di un effetto neobrutalista – si potrebbe argomentare. Quello a cui ci troviamo di fronte ci sembra tuttavia solo un junkspace sciatto: una versione priva di estetica di quell’ambiente artificiale ubiquo, economico ed infinitamente estensibile descritto da Koolhaas nei suoi testi. La situazione non migliora nemmeno scendendo alla scala degli arredi: gli spartani sgabelli in legno, unica seduta offerta agli studenti durante le lezioni, assicurano la totale assenza di ergonomia. Insomma, quello a cui ci troviamo di fronte è a conti fatti una (non) architettura il cui unico riferimento – a volerlo proprio trovare – è probabilmente L’abri du pauvre di Claude-Nicolas Ledoux.
Perché dunque in una delle più importanti scuole di architettura d’Italia è paradossalmente l’architettura stessa a essere ciò che manca?
Un’ipotesi è che ciò aiuti gli studenti ad imparare in negativo cosa effettivamente sia l’architettura, attraverso cioè la sua mancanza. Nella speranza che, stufi del pallore degli ambienti, della monotonia degli spazi, dell’insopportabile banalità del linguaggio (e dei mal di schiena procurati dagli sgabelli), essi progettino un giorno scuole di architettura migliori.
Questa ci pare tuttavia un’interpretazione fin troppo ottimistica (e sadica) della cosa.
Più probabilmente questi edifici, queste non-architetture – progettate forse seguendo come unico monito quello della minima spesa per il minimo del risultato – sono lì per ricordare ai futuri architetti una verità ben più ironica: che il loro mestiere – l’architettura – non è altro che una qualità, e come tale essa è superflua: un orpello, un surplus; qualcosa di cui, in fondo, si può sempre fare a meno.
–27 marzo 2012