di Marco Biraghi
L’anno scorso Roberto Marone ha pubblicato su doppiozero un bell’articolo dal titolo Unicredit e la torre sovietica. Nel commentare il completamento dell’“antenna” del grattacielo dell’Unicredit, nel cuore dell’area di Garibaldi-Repubblica a Milano, Marone istituisce un interessante parallelo tra il grattacielo, firmato da César Pelli e destinato ad assumere una valenza simbolica nello skyline di Milano anche in grazia dei suoi 231 metri di altezza che ne fanno – al momento – l’edificio più alto di Milano, e il progetto per il Monumento alla III Internazionale (1919) di Vladimir Tatlin. Questo parallelo ha molto divertito me come molti altri lettori, che infatti hanno variamente commentato l’articolo. E tuttavia mi ha lasciato un senso di lieve perplessità: una perplessità non tanto dal punto di vista interpretativo («il totem del nostro capitalismo fa il verso al totem (mai realizzato) del comunismo») quanto piuttosto dal punto di vista strettamente iconografico.
Al di là di ogni altra (volendo trascurabile) differenza, la torre di Tatlin ha infatti una caratteristica che la torre dell’Unicredit non ha: è inclinata diagonalmente. Questa piccola e apparentemente irrilevante particolarità è ciò che conferisce al progetto per la III Internazionale la sua propensione “rivoluzionaria”: ben più delle sue “spire” che si stringono sempre di più man mano che salgono; ben più dei tre volumi di vetro rotanti su se stessi a velocità differenti, che ne avrebbero fatto una sorta di gigantesco dispositivo a orologeria destinato a scandire il tempo di una nuova era; ben più delle sue poderose strutture metalliche a traliccio, che dovevano innalzarla fino a 400 metri di altezza e che hanno il proprio referente più immediato nella Tour Eiffel, è la diagonale su cui è impostato il suo asse a conferire alla torre la speciale dinamica che la contraddistingue, e a racchiudere la sua capacità di sovvertire emblematicamente ogni “ordine” precedente. È certamente in nome della rivoluzione, del resto – e quasi come una traduzione diagrammatica di questa –, che l’architettura russa dei primi anni venti utilizza la linea diagonale quale proprio elemento caratterizzante: linea che spezza la duplice staticità dell’orizzontale e della verticale e che, con il proprio avanzamento crescente, rappresenta il superamento di entrambe. Meglio di ogni altra forma o figura, la linea diagonale incarna la rottura rispetto all’ancien régime zarista e sancisce l’irrompere di un nuovo soggetto sul palcoscenico della storia.
La torre dell’Unicredit, al contrario, è inesorabilmente statica nel suo avvitarsi su se stessa. Non è dunque “rivoluzionaria” non tanto perché bancaria, e capitalistica, quanto piuttosto perché priva di qualunque “spinta” che spezzi in modo effettivo i fondamenti sui quali ben saldamente poggia.
Ma non è tutto. Scrive Marone: «resta da registrare che in giro per il mondo di guglie così non ce ne sono». Vero: non ci sono guglie così, issate in cima a un’alta stecca curvilinea. Tuttavia la forma della spirale in architettura ha una storia, uno dei cui capitoli principali è costituita dalle ziggurat. Non è però certo il caso di risalire alla mitica Torre di Babele, o anche soltanto alla storica Torre di Samarra, il colossale minareto della pressoché distrutta Grande Moschea del Venerdì, nell’attuale Iraq. Ma vale la pena di rimanere nella capitale irachena, Baghdad, perché è qui che l’architetto italiano Marcello D’Olivo ha progettato e realizzato il Monumento al Milite Ignoto tra il 1979 e il 1982. Può essere interessante riportare le parole dello stesso D’Olivo al proposito: «Quando mi fu affidato il compito di costruire un Monumento al Milite Ignoto iracheno […] lasciandomi completa libertà di concezione, pensai all’antico ziggurat concepito con i materiali e le tecnologie del mio tempo. […] Mi fu raccomandato da una apposita commissione di “arabizzare” la mia architettura. Feci presente che, pur provenendo da un’altra cultura, quella latina, era mio dovere tenere conto nella mia opera di progettista, delle culture del paese dove operavo. La cultura irachena aveva le sue radici nel mondo mesopotamico, e in omaggio a questo avrei realizzato un moderno ziggurat. Fui capito e il monumento fu realizzato».
La moderna ziggurat di D’Olivo rappresenta soltanto uno dei possibili “antecedenti” della torre dell’Unicredit di Pelli. Non è necessario dimostrare l’esistenza di alcun rapporto diretto tra i due autori, né alcuna conoscenza della prima da parte del secondo. La spirale – e la ziggurat – sono forme universali, e in quanto tali dotate di una propria carica significante che trascende la singolarità delle loro occorrenze. Vi è tuttavia un aspetto che, al di là delle singole manifestazioni, fa della ziggurat una forma specificamente connotata, almeno in tempi più recenti: ed è la sua appartenenza a una cultura “araba” in senso lato. Come l’arco moresco, così la ziggurat, anche quando compare in contesti diversi, evoca scenari mediorientali. È questa la sua “segnatura” essenziale. Ed è significativo in tal senso che per l’«apposita commissione» che invita D’Olivo ad “arabizzare” la sua architettura la ziggurat sia una risposta perfettamente adeguata.
Ovviamente alle origini la forma della ziggurat è strettamente inserita in un ambito religioso – dapprima espressione delle religioni sumera, assira e babilonese, in seguito di quella islamica, come attesta il citato minareto di Samarra. Ma non è in questa chiave che viene ripresa in tempi moderni. Laddove compare, piuttosto, essa si fa portatrice di riferimenti geografici puttosto che storici, e assume valenze genericamente “culturali” piuttosto che strettamente cultuali. E dominante su tutto rimane comunque il pur vago rimando alla cultura araba.
Rimane da domandarsi per quale ragione César Pelli abbia ritenuto appropriato un simile riferimento per un grattacielo in Italia, e a Milano. E qui, al di là di motivazioni specifiche difficili da conoscere, bisognerebbe comprendere con maggiore esattezza il ruolo rivestito dall’Italia e da Milano sulla scena non soltanto architettonica ma anche economica e più “complessiva” degli ultimi anni – almeno agli occhi di un architetto argentino ottantacinquenne trasferitosi negli Stati Uniti fin dagli anni sessanta. L’impressione è che tale ruolo sia tutto sommato marginale, e comunque certo non di primaria importanza. Non stupisce pertanto che Milano e l’Italia, visti in questa prospettiva, risultino uno tra i tanti luoghi del mondo assimilabili tra loro e compendiabili in un’unica “immagine”: un’“immagine” che tende a uniformare le città del sud-est asiatico – in particolare dei paesi islamizzati (Malesia, Indonesia) – e quelle del medio e vicino oriente – in particolare dei paesi arabi modernizzati (Kuwait, Abu Dhabi, Dubai), facendone un modello di riferimento generalizzabile, potenzialmente valido per una città di un paese del Mediterraneo quali sono Milano e l’Italia.
Se tutto ciò fosse vero, il grattacielo al momento più alto di Milano e d’Italia non potrebbe – ahinoi! – essere considerato «l’unica realizzazione architettonica che si avvicina al sogno di Tatlin», quanto piuttosto uno tra quelli meno eminenti tra quanti svettano nelle città del vicino, medio e lontano oriente. Un grattacielo per il resto perfettamente “allineato” con questi sotto il profilo estetico e qualitativo. Un grattacielo infine che sancisce l’assimilazione di Milano all’ambito circuito delle città mondiali. Benché non sia detto si tratti di New York, di Parigi o di Londra. E neppure di Mosca.
11 luglio 2012