Intervista a Marco Biraghi
Ultimamente il dibattito architettonico interessa anche i non addetti ai lavori? Se sì, perché c’è questo rinnovato interesse per i libri sull’architettura?
L’architettura, sia pur faticosamente, sta entrando nelle consuetudini culturali di massa, soprattutto quando si lega alle trasformazioni urbane che cambiano il volto di parti intere di città. Allora emerge l’esigenza di capire qualcosa di più di quel che i giornali e i magazine non specializzati hanno da offrire, ovvero – nella gran parte dei casi – chiacchiere sulle archistar come fossero creatori di moda. Benché in generale, a mio avviso, l’architettura soffra ancora molto in Italia a causa della pressoché totale assenza di un suo insegnamento nei cicli scolastici precedenti a quello universitario.
Quali sono i temi che interessano di più? Le monografie sulle archistar di oggi o quelle sui maestri di ieri, oppure i trattati di matrice sociologica?
A me pare che l’interesse per le “monografie sulle archistar” stia progressivamente scemando. Non soltanto perché spesso questi veri o presunti “grandi architetti” non sempre si rivelano all’altezza del ruolo che viene loro conferito, ma anche perché il modello del libro quasi esclusivamente illustrato, e conseguentemente molto costoso, soffre della crisi economica che stiamo attraversando. Da questo punto di vista i libri sui maestri “storici” (compresi quelli del Novecento) hanno meno problemi, essendo ormai consolidato il loro valore e meno importante l’apparato illustrativo, più facilmente reperibile altrove. Ma più di ogni altro personalmente ritengo fondamentali i libri meno “specialistici” e capaci di aprire, anche attraverso l’utilizzo di affondi storici, prospettive più ampie. Sono questi i libri che hanno segnato la fertile stagione degli anni sessanta e settanta, e di cui anche oggi ci sarebbe bisogno.
Qual è il filo conduttore della collezione d’architettura che cura per Franco Angeli? C’è una tendenza che ricorre nei vostri titoli, oppure non ci sono temi che prevalgano sugli altri?
La collana che dirigo ha essenzialmente due anime: la prima è relativa alla cultura architettonica, intesa come campo di studi vasto e diversificato. Un buon esempio è il libro che abbiamo pubblicato molto di recente, Orgoglio della modestia di Michelangelo Sabatino, uno studioso italo-canadese che insegna a Houston, incentrato sulle relazioni tra architettura italiana del Novecento e tradizione vernacolare: un rapporto denso di episodi significativi che intreccia anche arte e letteratura.
La seconda anima è riferita direttamente all’architettura contemporanea. In questo caso si tratta non soltanto di libri dedicati a quegli architetti di una generazione più giovane o “di mezzo” che finora sono stati poco considerati dalla pubblicistica (penso a un gruppo come Baukuh che si occupa volentieri anche di teoria o, quasi ai loro antipodi, a un professionista come Mario Cucinella), ma anche di libri affidati ad architetti dal punto di vista della scrittura e della concezione. La sfida è quella di far tornare a scrivere gli architetti, non soltanto di se stessi o delle proprie opere, ma anche di temi storici. Si pensi all’introduzione di Aldo Rossi agli scritti di Etienne-Louis Boullée, che nel 1967, quando è uscita, ha avuto un valore che nessuna introduzione di uno storico avrebbe mai potuto assumere.
Che genere di saggi pubblicate? Sono tutti originali o si tratta anche di ripubblicazioni di testi storici? Ci può fare qualche esempio?
Credo che una buona politica editoriale sia quella di mantenere un equilibrio tra libri originali e ripresa di testi storici. Questi ultimi ovviamente possono servire a “rinforzare” gli altri, ma sarebbe una distrazione imperdonabile “dimenticare” di sollecitare nuovi contributi, ciò che comporta far misurare le giovani generazioni di studiosi con un impegno critico. Su questo versante abbiamo pubblicato un’interessante raccolta curata da Dario Costi, Critica e progetto, in cui cinque giovani critici si confrontano con altrettanti architetti. Mentre sul fronte dei “classici”, dopo la pubblicazione di una raccolta di saggi di Pietro Derossi, risalenti agli anni ottanta ma ancora molto attuali, abbiamo in programma un’antologia di scritti di Massimo Scolari, che tra l’altro negli anni settanta è stato mio predecessore alla direzione della Collana di Architettura di Franco Angeli.
Quali testi classici del dibattito sull’architettura del XX e del XXI secolo andrebbero riproposti oggi?
Personalmente ritengo che gli anni sessanta e settanta siano stati i più fertili da questo punto di vista, e che da lì ci sia ancora molto da riprendere. Penso ad esempio a riviste come «Contropiano», fondata nel 1968 e diretta da Alberto Asor Rosa, Massimo Cacciari e Antonio Negri, che in una manciata di annate ha prodotto saggi decisivi, non soltanto di architettura ma anche di politica, economia, letteratura, che meriterebbero di essere ripubblicati. Anche in considerazione di tali relazioni “extradisciplinari”, che penso sia fondamentale riproporre all’attenzione dell’oggi. E poi, tra i classici, mi piacerebbe ripescare alcuni libri di Sigfried Giedion mai tradotti e invece davvero molto importanti.
Nella vostra collana di architettura puntate più sulla situazione italiana o c’è piuttosto un interesse al contesto internazionale?
Non credo di possa più ragionare per compartimenti nazionali. Ormai gli studenti di architettura e gli architetti attraversano le frontiere, spesso per necessità, in modo quasi obbligato, ma hanno comunque una consuetudine con lo scenario internazionale. Sarebbe quindi un errore limitare lo sguardo alla sola Italia, benché naturalmente il nostro Paese, trovandosi sotto molteplici punti di vista in una situazione critica, abbia anche da offrire di conseguenza molti spunti di grandissimo interesse.
http://adtoday.it/architettura-da-leggere2/
7 novembre 2013