Il seguente saggio è un inedito risalente al 1987. Si ringrazia Ilaria Pittana per la trascrizione del testo.
La Via è qualcosa di assolutamente vago e inafferrabile.
Tao Tê Ching, XXI
1. Le tensioni molteplici, invisibili, misteriose e tuttavia magneticamente attraenti che promanano dalla Strada sono scorte con straordinaria lucidità da Umberto Boccioni in un’opera del 1911, Le forze di una strada. In questo quadro la Strada, anima della vita metropolitana, è vista da Boccioni come un centro dinamico complesso, dove al fluire semplice, regolare, lineare degli uomini e delle cose si sostituisce una combinazione di spinte centrifughe e centripete, una cacofonica esplosione di movimenti e di luci in cui le forze in gioco, catturate nel trascinante vortice della “danza stradale”, si scompongono e ricompongono secondo linee variamente orientate. La Strada di Boccioni, come del resto la quasi contemporanea Strada con lanterne di Michel Larionov (1912-13) – e come, sia pure con diversi accenti, la Strada di Grosz e degli altri espressionisti tedeschi (di fondamentale importanza a questo proposito alcune opere capitali del cinema muto tedesco degli anni venti, in modo particolare Die Strasse di Karl Grune, del 1923) – non è più Einbahnstrasse, Strada a senso unico, dominata da una forza soltanto. Si tratta piuttosto di una forma composita, di una forma che perennemente si trasforma: luogo delle Visioni simultanee (è il titolo di un’altra opera boccioniana), multiverso palcoscenico dei “casi” del mondo, crocevia dei destini della Modernità.
Impossibile, dunque, a partire da questa immagine della Strada, accettare le semplificanti schematizzazioni operate da un approccio di stampo tecnico-viabilistico, tendente a ridurre la Strada ai suoi meri problemi costruttivi, e a darne ragione “oggettiva” classificandola secondo la logica illusoriamente stringente di “tipi” e “tipologie”.
Ciò che la Strada come nucleo generatore di forze e momento ove tali forze si risolvono ci conduce piuttosto a prendere in considerazione, è il lato più nascosto, e forse più misconosciuto, della sua natura: la sua capacità di agire, di promuovere azioni, e non di essere semplicemente “portatrice”, passiva esecutrice. Questa natura “agente” della Strada, tuttavia, si rivela tale soltanto a chi sappia osservare le “vicende” della Strada in una nuova dimensione; dimensione in cui si riconosce animazione alle Cose, soggettività alle Forme. È nell’ottica di una tale dimensione, ad esempio, che noi diciamo, sia pure irriflessivamente e senza farci caso, che una Strada, “ci conduce”. La Strada “come fosse un soggetto”, da silenziosa compagna di viaggio, viene quindi promossa ad “attrice” principale dei nostri spostamenti, soggetto privilegiato di possibili fenomenologie delle azioni di moto.
Ciò naturalmente non significa dar via libera alle più sfrenate fantasie sulla Strada, a facili impressionismi à la August Endell, per intendersi ( il quale pure al tema della Strada ha dedicato pagine di grandissimo fascino); e nemmeno aprirla a tutte le metafore in cui essa – incolpevolmente – in ogni campo dell’operare umano è presa a soggetto (a questo riguardo si legga il “pittoresco” libro di Pierre Fustier, L’homme et les routes – de la matière, de l’énergie, de la pensée, Paris 1972). Questo approccio infatti, diametralmente opposto a quello riduttivamente “tecnicista”, ne condivide però in pieno i rischi, poiché utilizzando smodatamente e impropriamente il concetto di Strada nei contesti più disparati – dalla navigazione marittima, al volo aereo, alla balistica! – finisce col farne un simbolo svuotato, privo di ogni peso specifico, completamente nullificato.
2. Assolutamente impensabile sarebbe tutta quanta la moderna civiltà senza l’incessante aspirazione dell’uomo a eliminare tutte le distanze e a compiere i più lunghi percorsi nel tempo più breve. Di ciò le Strade grandi e scorrevoli non sono affatto il “simbolo”, bensì il più evidente segno tangibile. Anzi, si potrebbe dire, con Heinrich Tessenow, che “quanto più viva è la fede nei mondi lontani, tanto più lo è anche quella nelle strade più lunghe e veloci” (Über Strasse und Plätze, 1909). Partendo da questo presupposto è innegabile come tutta la più (relativamente) recente Weltgeschichte (storia mondiale) si caratterizzi come una Strassenbaugeschichte, una storia della costruzione delle Strade. La Strada è cioè la forma per eccellenza della volontà di connessione.
Qualunque considerazione sulla grande arteria così come sull’autostrada dovrà allora prendere le mosse proprio da questa volontà di connessione stradale, alla quale nulla importa in fondo “quanto” distino fra di loro il punto di partenza e il punto d’arrivo, ma soltanto “che” distino. E che in essa cessino di distare, e vengano “obiettivamente” congiunti. In questo senso tanto la grande arteria quanto l’autostrada – Strade “che corrono”, ripensandole nella dimensione della soggettività – si risolvono per dir così tutte al di qua di una mera descrizione analitica dei loro percorsi. Questi ultimi piuttosto sono “gettati in un sol colpo”, con un sol tratto, pro-gettati interamente e anticipatamente nell’atto volitivo della Strada. La Strada “che corre” sa già dove andare, ha già deciso quale meta raggiungere, e vi si incammina frettolosamente seguendo la linea più breve, seguendo-tracciando una retta. Nessuna esitazione, nessuna incertezza sfiora la Strada rettilinea: ferrea infatti è la “legge” della retta, che non si lascia piegare neanche “all’infinito”; e instancabile il suo gettarsi in avanti, che non trema neppure di fronte alla “più lontana lontananza” (Tessenow).
Così, anche dinanzi all’abisso, la Strada “che corre” non svia, non de-via dal suo cammino diritto, dalla sua decisione: non si nega scartando l’ostacolo rappresentato dall’assenza di terreno fidato, sicuro, dal “vuoto”. Lanciata sull’abisso la Strada non cessa di “correre” senza deviazioni, “in modo il più possibile piatto, orizzontale e infinitamente dritto” (è ancora Tessenow). Sull’abisso la Strada si fa ponte. È questo l’insegnamento dell’autostrada del Reich, nella Germania nazista, che “non segue l’antico tracciato degli insediamenti a valle, ma cerca un collegamento tra le città attraverso zone libere, passa sugli altopiani e sul dorso dei monti, e scavalca le fenditure delle valli” (P. Bonatz, Il Dottor Todt e la sua autostrada, 1941). Il ponte è il coraggio della Strada di non arrestarsi di fronte all’abisso, la suprema volontà di arrivare alla meta. Volontà che all’occorrenza non esita a sbarazzarsi della “vecchia” forma terrena della strada e a inventare “una nuova legge ritmica del movimento, un movimento a sbalzi repentini, simile al volo” (Bonatz). La Strada “che corre”, la Strada “che vola” alla meta, trasformandosi in ponte, non perde bensì sublima la volontà di connessione. Nel ponte, più che nella Strada – o piuttosto, nel ponte in quanto “caso particolare” della Strada, forma “seconda” della forma “prima” Strada – tale volontà si spiritualizza e nel contempo si fa visibile e tangibile.