di Stefano Passamonti
«L’architettura non desidera essere funzionale. Vuole essere opportuna»
Paulo Mendes da Rocha
La mostra “Paulo Mendes da Rocha. Tecnica e Immaginazione”, curata da Daniele Pisani e ospitata dalla Triennale di Milano, si è inaugurata il 5 maggio, e rimarrà aperta sino al 31 agosto 2014.
L’esposizione rende finalmente omaggio alla figura e all’opera di Paulo Archias Mendes da Rocha (Vitória, Brasile. 1928), uno fra gli architetti più originali, coerenti e coraggiosi attivi nella seconda metà del Novecento; un architetto che, sulla base di una visione chiarissima del mondo e della natura, ha sviluppato un proprio percorso coerente e indipendente, senza tuttavia essere mai sordo nei confronti del mondo.
La chiarezza delle concezioni strutturali, l’esemplarità delle scelte formali, la limpida tettonica, il rigore e l’essenzialità di ogni soluzione costruttiva, l’intransigenza nell’impiego dei materiali, la sicura razionalità, la liberazione dal superfluo e l’indifferenza verso le apparenze dell’attualità, sono i tratti distintivi della sua opera.
Mendes da Rocha ha assorbito la lezione modernista e la sua declinazione brasiliana degli “anni felici”, nonostante il regime militare gli abbia per diverso tempo impedito di praticare la professione. Fortissime sono le influenze di Vilanova Artigas che lo chiama come docente nella prestigiosa Facoltà di Architettura ed Urbanistica di San Paolo. Ancor di più, sono determinanti sia l’esperienza acquisita con il padre ingegnere di opere idrauliche e portuali (oltreché Direttore della Scuola Politecnica di San Paolo), sia il fatto di essere nato e cresciuto in una città come Vitória, un importante scalo portuale, teatro di quotidiane esperienze di “montaggio” della realtà. Un bagaglio pragmatico e una fiducia nell’ingegneria e nella tecnica di cui egli farà tesoro negli anni successivi, allorché si trasferisce a San Paolo nell’Università privata Mackenzie.
Il percorso espositivo si articola inquadrando i diversi momenti della sua carriera, dagli anni pre-accademici sino alle ultime opere. In questo modo è possibile leggere il discorso di fondo della sua architettura: una forma peculiare di conoscenza per proteggere l’uomo dalla sua fragilità e dall’imprevedibilità della vita, per «evitare il disastro».
L’opera di Mendes da Rocha è una sintesi di tutte le esperienze accumulate nel corso del ‘900, dove l’architettura si libera del mero imperativo funzionalista e da tutta una serie di stilemi e di derivazioni successive. I suoi edifici riescono a emanciparsi dall’ortodossia dell’architettura europea, superando il concetto di edificio impaginato sul piano formale, sulla base di alzati principali e sezioni orizzontali e verticali tipo.
La mostra demarca in modo discreto i temi principali su cui poggia la ricerca “a togliere” della sua architettura, cristallina e necessaria, fatta di nulla, che giunge alla pura essenzialità, quasi a una povertà che la rende «opportuna»: la città “para todos”, scenario di ogni suo progetto pubblico e privato, desiderio difficile da realizzare ma anche – e soprattutto – luogo di convivenza civile dell’uomo e obiettivo prioritario dell’architettura; la natura, vista non nostalgicamente come paesaggio, bensì come costellazione di fenomeni, manifestazione della meccanica dei fluidi. La stessa natura, preesistente alla costruzione, è di per sé inabitabile e inospitale, e l’architettura, in quanto riunione “eroica” di arte e scienza, permette di trasformarla, rendendo il territorio adatto alla vita umana. Vi è poi il grande tema del progetto, insieme di desideri trasformati in problemi che la tecnica – premessa all’immaginazione – può risolvere come manifestazione e celebrazione di sé stessa e delle possibilità dell’ingegneria nella modificazione del territorio. E infine l’architettura, come costruzione e non solo come osservazione, concretizzazione di ciò che si è progettato. È impossibile pensare alla trasformazione dello spazio insita nel progetto se non si sa come costruirla.
I materiali esposti sono numerosi, preziosi e autentici: più di duecento disegni ed elaborati tecnici, una decina di modelli, centocinquanta fra fotografie e materiali d’epoca, una serie di video girati appositamente per la mostra e alcune sedie “Paulistano”. Un apparato iconografico vastissimo che Daniele Pisani ha meticolosamente raccolto nel corso della sua frequentazione dello studio professionale del maestro a San Paolo. Fra i progetti esposti, da quelli inediti ai più noti, ne vanno ricordati alcuni che costituiscono gli apici della produzione dell’architetto, esempi senza tempo per la cultura architettonica.
Il Ginnasio del Club Atletico Paulistano (1958) inaugura, con la sua sconcertante radicalità, alcune delle caratteristiche fondamentali del lessico spaziale, strutturale e formale di Mendes da Rocha ma, anche, dell’architettura costruita a San Paolo durante le decadi seguenti. Il ginnasio è una costruzione singolare, inquietante. Prima che centro sportivo, è un teatro, uno spazio dove la collettività assiste a uno spettacolo. Al di sopra di una piattaforma coperta si può osservare la tensione generata dalla tettonica delle sei sottili lame in calcestruzzo armato dai profili sagomati ed eleganti. Questi sostegni tutti uguali si sviluppano in aggetto al di sopra della linea di copertura e, tagliati diagonalmente in maniera da enfatizzare gli sbalzi grazie agli spigoli vivi, reggono dodici cavi cui è assicurata la calotta in acciaio, staccata dall’anello della copertura cementizia della sottostante palestra. Il calcestruzzo è lasciato a vista e l’intero organismo architettonico si presenta come il risultato di un elegante e poderoso gioco di equilibri e di sforzi, reso concreto da una chiarissima sintassi strutturale.
Il Padiglione Brasiliano all’Expo di Osaka (1970) è il risultato di un concorso che Mendes da Rocha vince nell’anno in cui il regime militare gli preclude il diritto a esercitare la professione di architetto in Brasile. L’edificio acquista un carattere allegorico nel suo esplorare la relazione fra architettura e natura, simboleggiando l’occupazione del territorio con l’artificio costruito. Una grande piattaforma di 1500 mq che sormonta il terreno che, a sua volta, si corruga per toccare la copertura in tre punti; in quanto al quarto, due archi incrociati ne costituiscono il sostegno. Le due grandi travi laterali chiudono la copertura cassettonata che sottende uno spazio aperto e attraversabile in ogni direzione. Il condizionamento reciproco di copertura e topografia sono, al contempo, celebrazione della tecnica ed esaltazione della natura come fenomeno fisico.
Il Museo Brasiliano di Scultura di San Paolo (MuBe, 1988-94), sovrastato da un’imponente trave di calcestruzzo che “irradia ombra”, si sviluppa lungo una serie di piattaforme semi-sotterranee, di forma continua, che dirigono il visitatore dall’esterno all’interno, come fosse una macchina teatrale in costruzione. Situato in un distretto residenziale, l’edificio si manifesta come un esteso tetto-giardino per accogliere le sculture all’aria aperta. Approfittando delle differenze di quota del lotto, il museo risulta nascosto dalla strada, e quindi ipogeo. Unico segnale è il grande portale che, in tutta la sua magnificenza scultorea, rivela la sequenza teatrale progressiva di un mondo sommerso che altro non è che una riflessione sul museo nella sua variante più antica: la cripta. Questo eminente elogio della tecnica è una trave-copertura che, con una luce di 60 metri, stabilisce la scala del progetto facendo da unità di misura fra l’uomo e le sculture situate all’esterno. Al di sotto di essa la nuova geografia artificiale che accoglie il museo è un rilievo piegato a partire dal suolo esistente, in cui l’azione principale consiste nell’unione fondamentale di costruzione e terreno mediante scavi, terrazzamenti, giardini sospesi e coperti.
La Cappella di San Pietro a Campos do Jordao (1987-89) è un’opera quasi ingegneristica. La “scatola sagomata” esterna, composta dalla cassa in calcestruzzo della copertura e dalla chiusura vitrea verticale, celano un’enorme colonna strutturale cilindrica, a simboleggiare il ruolo di pietra fondativa di San Pietro per il Cristianesimo, che si erge da un specchio d’acqua, simbolo della vita. La struttura è in grado di reggere a sbalzo la grande e unica navata che accoglie la congregazione, creando una vista privilegiata verso la valle. La chiusura perimentrale trasparente è in evidente contrapposizione con la natura massiva del grande pilastro centrale e della mensola gradonata.
Lo Showroom Forma (1987-94) si propone di garantire, contemporaneamente, la piena visibilità dall’automobile, lo spazio per il parcheggio e la massima visibilità ai pezzi di design esposti. Per conseguire tutto ciò, il prisma astratto del negozio viene sospeso di due metri rispetto alla quota stradale, grazie a due grandi travi pre-tensionate che liberano i circa 30 metri di luce conformando l’area del parcheggio. Agli estremi, quattro grandi sostegni in calcestruzzo uniti a coppie, ospitano le installazioni, le scale e i servizi. Su tale base di calcestruzzo una struttura in acciaio garantisce il sostegno per la chiusura più esterna, in alluminio.
La Casa Gerassi (1988-91) supera il modello delle prime “abrasive” residenze private, senza però rinunciare a un’idea di casa come porta per il mondo esterno che all’interno determina uno spazio assoluto. La casa come microcosmo della vita sociale, ma anche come riflessione sull’esigenza di abbandonare il funesto modello della casa unifamiliare, a favore di quello basato sulla prefabbricazione in verticale. La casa è dunque la realizzazione di un sogno: quello della dimora prefabbricata che si può ordinare al telefono e montare nel giro di pochi giorni.
Il progetto di allestimento della mostra, su progetto dello studio PioveneFabi, pur con la dovuta attenzione alla ricostruzione filologica delle varie fasi della carriera del maestro, non esalta nel tentativo di interpretare l’asciuttezza e la povertà dei dettagli delle sue opere. I supporti, realizzati in cemento di minimo spessore, sono stati progettati e prodotti con la collaborazione di Italcementi, sviluppatore del brevetto i-active biodynamic. Poco felice l’idea di appendere i disegni direttamente alle pareti, interponendo una superficie plastica fra gli occhi del visitatore e il foglio disegnato.
Una visita alla mostra, ricchissima di materiali e contenuti, è doverosa per comprendere il percorso architettonico di un piccolo-grande uomo che ha costruito opere colossali, cordiali e brutali, sempre attente alla logica della tecnica. Una mostra che restituisce in pieno la leggerezza titanica di costruzioni che si aprono all’ambito collettivo e alla città, collocando la rigorosa geometria delle proprie forme al di sopra dell’ordine complesso della geografia del territorio o alle circostanze urbane, riconciliando intimo e pubblico, concetto strutturale e appropriatezza dei dettagli, artificiale e naturale, in una sintesi tecnica e poetica.
16 maggio 2014