di Marco Biraghi
«Il territorio della capitale federale australiana Canberra (385 mila abitanti, in gran parte impiegati pubblici e diplomatici) è il miglior posto al mondo in cui vivere, secondo un rapporto dell’Ocse che ha classificato 362 regioni dei suoi 34 paesi membri. Lo studio ha usato nove misure di benessere: reddito, istruzione, occupazione, sicurezza, salute, accesso ai servizi, ambiente, alloggi e coinvolgimento civico».
Questa la notizia battuta dalle agenzie d’informazione di tutto il mondo nel corso della giornata di ieri, 9 ottobre 2014. La fonte del rapporto, l’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ovvero OECD, The Organisation for Economic Co-operation and Development) è un organismo internazionale serio, fondato nel dopoguerra, con sede a Parigi, cui come già detto aderiscono attualmente 34 paesi. Non c’è dunque motivo di dubitare del fatto che, osservata dal punto di vista del livello di reddito, istruzione, occupazione, sicurezza, salute, accesso ai servizi, ambiente, alloggi e coinvolgimento civico, Canberra risulti davvero – almeno per quest’anno – la città “migliore” in cui vivere tra tutte quelle presenti sul pianeta.
Benché relativamente recente, la storia di Canberra è particolarmente intricata e interessante. Nel 1908, per dirimere la contesa tra Sydney e Melbourne, le più accreditate pretendenti al titolo di capitale federale, viene salomonicamente scelto un territorio dolcemente collinare e contornato da rilievi dell’entroterra sud-orientale del continente australiano, in una posizione compresa tra le due maggiori città. Nel 1911 viene bandito il concorso internazionale per la progettazione urbanistica della nuova capitale, nel quale vengono presentati ben 137 progetti.
Il primo premio andrà al progetto di Walter Burley Griffin, architetto di Chicago impegnato negli anni precedenti presso lo studio di Frank Lloyd Wright. Basato su una struttura urbana composta da grandi assi stradali, specchi d’acqua e “fuochi” radiali che formano un triangolo equilatero, il progetto – anche grazie agli spettacolari disegni dorati elaborati con la collaborazione della moglie Marion Mahony – conquisterà la maggior parte dei componenti della giuria.
Vi è tuttavia una minoranza di essa che assegna la vittoria al progetto più tradizionalista degli architetti di Sydney Walter Scott Griffith, Robert Coulter e Charles Casswell. Ciò porta a un lungo processo di revisione del progetto, che viene rielaborato da un Department Board appositamente istituito, integrandovi anche idee desunte dai progetti secondo e terzo classificato, rispettivamente quello dell’architetto finlandese Eliel Saarinen e del francese Alfred Agache. L’esito non risulta però soddisfacente, al punto che Griffin è nominato Federal Capital Director of Design and Construction, carica che rivestirà fino al 1920, allorché viene sollevato dall’incarico per i notevoli dissapori intervenuti con gli apparati politico-burocratici e tecnici australiani. Il suo progetto del 1918, pur notevolmente modificato nella forma e nelle quantità, diventa comunque la base per l’impostazione del piano di costruzione urbana avviata intorno alla metà degli anni venti.
Negli anni successivi una serie di istituzioni si occuperanno della realizzazione di Canberra che, nonostante le numerose traversie, mantiene l’impianto urbano organizzato intorno a un sistema di “fuochi” che formano un triangolo equilatero, e conserva anche la “dispersione” della città originariamente ideata da Griffin, all’interno della quale il verde occupa una percentuale preponderante. La progettazione degli edifici verrà invece affidata a diversi architetti, ciò che determina un effetto di scarsa unitarietà agli interventi nella città. Ma è soprattutto l’assenza di veri “pezzi di pregio” l’aspetto di cui maggiormente soffrirà l’architettura della capitale australiana.
A chi oggi visiti Canberra si offre un’esperienza alquanto curiosa: lunghissime strade, dalla sezione di sovente larga anche sei corsie, percorse quasi soltanto da automobili, che sfociano in spiazzi circolari o esagonali di enormi dimensioni, in nessun modo riconducibili a “piazze”; vaste distese di parchi, dove la circolazione è riservata ai pedoni, alternate a bacini d’acqua e a svincoli autostradali; pochi, grandi edifici isolati (tra gli altri, il Nuovo Parlamento, il Vecchio Parlamento, l’Alta Corte di Giustizia, il Museo Nazionale, la Galleria Nazionale, la Biblioteca Nazionale, il Memoriale di Guerra), cui fanno da comprimari edifici terziari e residenziali tendenzialmente sviluppati in orizzontale.
Nel complesso, un luogo certamente affascinante e piacevole, ma al tempo stesso difficilmente abbracciabile con uno sguardo, e di sicuro impossibile da percorrere nella sua estensione senza disporre di un’automobile; un luogo desolato dopo la chiusura degli uffici, e quasi spettrale la sera e la notte; un luogo tranquillo e sicuro, e ciò nondimeno assai poco “umano”. Un luogo in cui vivere – e in cui vivere meglio che in molte altre, o addirittura in tutte le altre – città? Forse anche no.
Se c’è qualcosa che ha la capacità di dimostrare plasticamente l’esito del rapporto dell’Ocse (aka OECD) non è tanto l’erroneità dei dati su cui esso si basa, quanto piuttosto l’abissale distanza che questi rivelano dall’esperienza, dalla realtà. La stessa abissale distanza – in termini urbani – che separa la nuova Parliament House dalla sommità dell’Australian War Memorial di Canberra.
10 ottobre 2014