ANNI 10 | Notizie da una strada stretta

Testo di Cherubino Gambardella

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Cherubino Gambardella, Attico sulla Galleria Umberto (Napoli, 2010) il sopralzo in notturna

L’architettura di questo scorcio di secolo, osservata da Napoli – la città dove vivo, insegno e in parte lavoro come progettista -, è come una strada stretta.

Tramontata verso lo scadere degli anni novanta del secolo scorso la centralità dell’architettura italiana con la scomparsa di Manfredo Tafuri e Aldo Rossi che, attraverso il progetto di crisi e l’invenzione della città, ne avevano confermato l’inossidabile successo internazionale, il vuoto di potere intellettuale generatosi nel mondo ha favorito l’affermarsi di un collettivismo dai tratti elitari.

Accadono molte cose: il successo di teorie post fenomenologiche, il predominio dei concetti sui linguaggi, l’affermarsi di un liberismo forsennato come fondale della scena. Questa apparente emancipazione, unita a un gigantismo dello sprawl orizzontale acefalo e privo dell’ironia sorridente dei coniugi Venturi, si affianca al ritorno di un plasticismo scintillante tipico di uno stile internazionale che cantava le glorie del nuovo capitalismo globale. Poi arrivano le guerre, le nuove povertà, la crisi economica. Il tutto scatena, persino nel vate della densità, del citazionismo e del concettualismo, uno strano senso di colpa: la Manhattan di Rem Koolhaas cambia nome ma non teoria ogni dieci anni e oggi, sebbene Koolhaas voglia tornare ai fondamentali, li scambia per una maestosa enciclopedia da tradurre in tutte le lingue del mondo, senza riuscire a nascondere il cadavere de Il Grande Gatsby riverso nella piscina.

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Cherubino Gambardella, Case popolari a Scampia (Napoli, 2012) la piazza.

Per anni ho studiato l’architettura comme il faut. Quando poi ho cominciato a praticarla sul serio in un posto, in una regione, dove arretratezza, contraddizioni, diffusione di automatismi insediativi cresciuti senza alcun fondamento teorico e basati su una prassi rozza ma stranamente potente, ho maturato una convinzione. Dovevo guardare il fare, il pensare e il costruire spostando la mia focale dentro quello che Goethe aveva definito un paradiso abitato da diavoli assecondandone i modi ma mutandone il verso.

Non potevo inseguire – anche se avessi voluto o fossi stato in grado di farlo – una architettura civile, bisognava smontare i luoghi comuni della mia terra usando la loro anarchia, la loro imperfezione, la loro imprecisione, senza tesserne un comodo elogio cadendo in una facile dimensione pittoresca. Dovevo provare a dimenticare quello che avevo studiato e costruire un modo di fare architettura che si basasse su una nuova teoria.

Così, nel 2005 con un piccolo libro intitolato Centomila balconi e, nel 2009, usando l’opportunità di una mostra, impostai una nuova narrazione cui ho dato il nome di bellezza democratica.
Vitruvio non c’era più: la firmitas era dettata da una tecnologia rudimentale e sempre identica, fondata sulla lunga emivita dell’ossatura Dom-ino; l’utilitas era scandita da modi antichi che postulavano una semplicità insediativa dove, tra gli altri temi, scomparivano dal fare architettura il duplex, il ballatoio, l’invenzione tipologica.
Non restava che la strada stretta della venustas, ma non si trattava di una bellezza elitaria e inconfutabile che univa in un’unica traiettoria gli esercizi sofisticati di Leon Battista Alberti con i monoliti raffinati di Aires Mateus o di Alberto Campo Baeza.

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Cherubino Gambardella, Case popolari a Scampia (Napoli, 2012) l’ingresso alla piazza.

Si perlustrava un intervallo limitato dove la facciata diventava spessore abitabile, varietà, parola, espressione. Era un registro imperfetto dominato non dal paternalismo di un folcloristico stile post modernista, ma da un riscatto visionario di quei modi assurdi di concepire il costruito. Un approccio dove la ricerca su tipo, spazio e forma si nascondevano addirittura scomparendo e bisognava riesumarli simbolicamente come in una seduta spiritica.

Ecco, allora, un intervallo concettuale solo apparentemente piccolo dato dal colore, dalle membrature, dal gioco d’ombre e luci, dallo sguardo attento verso le modificazioni spinto sino all’osservazione ipnotica di una realtà semplice e superficiale. Tornano come protagonisti la finestra, il balcone, la grotta, il rivestimento, tutto ricercato in un equilibrio euristico ed eccessivo, dai toni a volte antigraziosi ma privi di ogni paternalismo.

Non è l’antigrazioso sofisticato di Mario Sironi, si tratta di altro. Una democrazia intesa come popolarità complessa che si allontana dalla perfetta facondia di Eduardo De Filippo per attingere all’urlo liberatorio e anarchico di Raffaele Viviani sullo sfondo della sottile introspezione di Luigi Pirandello.

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Cherubino Gambardella, Palazzo del Commercio a Montesarchio (Benevento, 2009) dettaglio di scorcio.

Questa modalità da tappezziere, da scenografo della massa, non mi spaventa più.

Forse, proprio in questi anni ’10 drammatici e densi di ritorno ad un ordine postmarxista nel progetto, la tappezzeria simbolica mi salva.
Essa mi fa attingere direttamente dai luoghi dove lavoro (non necessariamente da Napoli ma da tante altre città e regioni italiane) le narrazioni che seleziono per costruire le mie architetture imperfette, edifici dove solo una sperata amnesia mi permette di pensare che questo architetto, finalmente, sia proprio io.

10 marzo 2015