di Marco Biraghi
Lo si dice e lo si ripete ormai come un mantra contemporaneo, che non ha più in compenso – rispetto a quelli originali – alcun potere meditativo o evocativo: è sempre più difficile trovare dei luoghi nelle nostre metropoli: ovvero, non soltanto dei “posti”, riforniti solitamente di “locali pubblici”, in cui trascorrere del tempo insieme ad altre persone, bensì piuttosto degli spazi in cui si possano sviluppare delle relazioni sociali, e che abbiano essi stessi la capacità di essere forme di relazione sociale. Difficile ma non impossibile.
L’esperienza del Locus, temporaneamente dischiusosi tra il 18 e il 19 luglio scorsi in via Conca del Naviglio 17 a Milano, sembra attestare questa possibilità. Si tratta della riappropriazione (termine che sostituisce l’altro utilizzato in genere in queste circostanze: occupazione) di uno spazio aperto alle spalle di una casa di ringhiera abbandonata e murata, di proprietà del demanio. Un pezzo di natura urbana immediatamente a ridosso delle vestigia archeologiche dell’Anfiteatro romano in cui, alla libera proliferazione di svariate specie di piante e di arbusti, si mescolano frammenti di muri e di altre strutture costruite dall’uomo.
All’interno di questo spazio un gruppo di giovani milanesi ha allestito per due giorni una serie di spettacoli teatrali e musicali, di mostre e d’incontri, divertenti e intelligenti, oltreché completamente gratuiti. La stessa gratuità che caratterizzava il cibo messo a disposizione presso un punto di ristoro e bar autogestito, dove soltanto il consumo delle bevande prevedeva un’offerta libera.
La condizione proposta dal Locus è radicalmente alternativa a quella consueta sotto molteplici punti di vista: economico, culturale, sociale. Una condizione che sostituisce l’uso al possesso, la messa a disposizione allo sfruttamento, la comunanza alla separatezza, la sostanzialità alla formalità. Senza dimenticare il diverso concetto di tempo messo in campo dal Locus, che rinuncia alla falsa infinità della temporalità capitalistica per attingere a un’intensificata limitatezza, alla fragranza dell’evento.
Per questa ragione il nome apparentemente generico ch’è stato scelto per esso indica in realtà qualcosa di molto preciso: una pienezza che non ha nulla a che fare con la saturazione di proposte d’intrattenimento e commerciali di cui sono teatro le nostre città, e non ha nulla a che fare neppure con il senso di esteriore appagamento che tutto questo normalmente porta con sé: una pienezza ch’è addirittura più che utopica – una pienezza edenica.
27 luglio 2015
Foto di Orsola Giunta, Andrea Rossi, Giovanni Trabucco
Altre info e fotografie su in-locus.tumblr.com