La città sospesa | #ciòchemanca

Quanto segue è una delle proposte selezionate nel contesto del concorso “Ciò che manca” indetto da Gizmo lo scorso maggio. Ai partecipanti è stato chiesto di rispondere al quesito “cosa manca nelle nostre città?” attraverso qualunque tipo di forma comunicativa, formulando soprattutto un’idea.

La Città Sospesa
di Silvia Dalzero

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Il dramma si sta per consumare, si sta per compiere un racconto caotico e crudele sull’architettura. Un racconto sbilenco e un po’ folle, ora sotterraneo ora aereo, in cui lo sguardo accetta e fa propria una visione deformata, una visione analitica, complessa nella quale convivono fenomeni ordinari e straordinari. Nulla più che una ‘collocazione all’infinito’, un abile gioco di specchi in cui il pensiero si fa incondizionato, senza bordi, attento alla dimensione urbana nella sua forma più complessa così da intuirne la storia, la tradizione, la trama degli avvenimenti e delle relazioni e farsi critico del contingente.

In questo modo, affiora una complessità dominante che non si può governare e di cui, peraltro, si accetta passivamente l’apatico relativismo e il multiculturalismo ‘globalizzato’. Prevale, infatti, l’istante, l’avvenimento, l’eccezionalità come mezzo costitutivo la città contemporanea: idiosincratica, molteplice e per nulla consolatoria. Una realtà in equilibrio precario, sempre più, schiacciata dall’incombente leggerezza dell’evento, dall’estemporaneità spettacolare, dell’auto-celebrazione che, in ogni caso, deve essere consumata presto e subito, pena la perdita di ‘senso’, di ‘valore’.

Un affastellarsi, dunque, che disturba, lascia insoddisfatti, a tratti, persino, annoiati. Un insieme di tematiche alte e forme basse, di tragico e di comico, di dramma e grottesco che, in vero, racconta il destino (o la mancanza di destino) della soggettività moderna, dell’identità di luogo al momento: sincopata, lacerata, tesa verso una compiutezza che non arriva mai e che, spesso, va dissolvendosi.

Una realtà urbana, dunque, massificata che, in soli pochi anni, ha saputo stravolgere e spazzare se stessa e la propria storia, diventata presto dopo storia, nuova preistoria e ‘barbaria’ moderna. Si, perché sono state distrutte città, paesi, natura, paesaggi, persone, memorie, senso dell’inviolabile e del sacro, tradizioni, arti… per poi essere riversate nel parossismo obeso del consumismo e del potere mediatico. Oggi, di fatti, qualsiasi realtà, fisica o astratta che sia, apparentemente pulita o ripulita, è nulla più che un’ipocrita retorica e fatale strategia mistificatoria di controllo, ovviamente, resa ‘luogo’ ma anche vittima inerme di forme immorali, politiche delittuose, di negazione e falsificazione. È, allora, necessario compiere un temerario slancio in avanti, assumere un atteggiamento di disubbidienza, d’insubordinazione e di ammutinamento nei riguardi di tutti coloro che ci vorrebbero ignari e cercare, invece, la ‘verità di mondo’, la sua identità e corretta ‘ragione’ come lo stesso Paul Valèry, ancora nel 1921 in Eupalinos o l’architetto (una sorta di moderno dialogo platonico con l’ambizione di mostrare), spiegava: “[…]il pensiero puro e la ricerca della verità in sé possono aspirare solo alla scoperta o alla costruzione di qualche forma”. Tra l’altro, Valéry parlava anche di un anti-Socrate, o meglio, di quel costruttore che, in una visione cosmogonica imperniata sull’idea per la quale negli atti e nella combinazione degli atti si trova la presenza del divino mette in scena la ‘ragione’ prima di ogni cosa. Si potrebbe dire che da un lato Valéry, nelle parole di Socrate (o meglio, anti-Socrate) si faceva porta voce da un lato del Pensiero e da un lato della Realizzazione. In parte, quindi, del bisogno di ‘senso’ e ‘valore’ e in parte di quello più pratico di creazione di forme adeguate e distinte.

Del resto, l’uomo è per sua natura un costruttore. Vive in un cantiere eterno. Modifica il paesaggio con la sua attività di ‘demiurgo’ (come diceva Platone) di artefice del mondo. Si spiega, così, l’attività del costruire che dà forma al cantiere perpetuo del mondo come ricerca di ‘senso’, di luogo, di spazio appropriato come lo stesso Platone, nel II libro della Repubblica, descriveva riconoscendo la nascita della polis quale insieme di differenti apporti individuali e comuni a fronte di bisogni particolari e collettivi. Se ne conviene, allora, che la città, in genere, si mostra ‘omogenea’ sia pur garante di una certa particolarità, rispondente, di fatto, a bisogni e necessità specifiche e temporanee. Proprio nell’osservazione generale, in effetti, si compie l’identità urbana, si compie la città nella sua forma e nella sua storia, nel suo essere racconto di eventi, di accadimenti, di trasformazioni coerenti e anche non, nel suo essere struttura e sistema di rapporti ‘larghi e stretti’, vicini e lontani; rapporti fra elementi costitutivi una singolarità, una particolarità spaziale e temporale che implica la capacità di organizzare e controllare l’inesauribile farsi e disfarsi delle ‘cose’, il suo, intrinseco, processo metabolico.

Italo Calvino, nelle parole di Palomar, aiuta a comprendere quanto detto. Il personaggio di Palomar, di fatti, null’altro faceva se non osservare; la sua era un’osservazione libera da ogni coinvolgimento emotivo, un’osservazione particolare, a tratti ‘silente’ che non si disperdeva in sensazioni vaghe o impressioni personali e per questo sceglieva di osservare il particolare, o meglio il singolo ‘oggetto’, come l’onda del mare, per esempio, vista ‘separata’, unica, allo scopo di astrarre gli elementi distintivi il fenomeno, il suo nascere e morire sulla spiaggia. Palomar, però, scopriva, ben presto, che isolare una sola onda non era facile, perché: “[…]non si può osservare un’onda senza tener conto degli aspetti complessi che concorrono a formarla e di quelli altrettanto complessi a cui essa da luogo”. Cercava, allora, di individuare, nel succedersi: “[…]delle forme e sequenze che si ripetono, sia pur distribuite irregolarmente nello spazio e nel tempo[…]”, una certa monotonia, una ripetizione come d’atra parte faceva lo stesso Galileo quando mirava a esprimere le leggi di natura in forma matematica, ovvero: dal particolare, complesso e irregolare, per astrarre a uno schema generale.

Calvino spiegava, inoltre: “Guai se l’immagine che il signor Palomar è riuscito minuziosamente a mettere insieme si sconvolge e frantuma e disperde. Solo se egli riesce a tenerne presenti tutti gli aspetti insieme, può iniziare la seconda fase dell’operazione: estendere questa conoscenza all’intero universo”. Se si pensa, quindi, alla struttura e forma urbana si comprende che, in ogni tempo e in ogni spazio, la città si organizza in un affastellarsi, più o meno complesso, di luoghi, sovente: falsi e posticci, passivi nel loro reiterare forme e atmosfere di un tempo passato, oramai desueto. Luoghi, qualche volta, dai caratteri particolari, assolutamente tipici, realizzati in modi e forme diverse, con politiche e ‘poetiche’ particolari. In altre parole, luoghi della storia e della cultura. Luoghi che testimoniano realtà di mondo che, come visto, a teatro possono essere esaminati, ‘goduti’ nella loro completezza, contemplati da ‘lontano’, con sguardo oggettivo e autentico. Si conquista, allora, un orizzonte che, nella dimensione del reale, si perde in una nebulosa, in una mono dimensionalità temporale abile a celare ogni distinzione fra: passato, inteso quale tradizione, futuro, quale possibilità e presente, smemorato e distratto ma pur sempre unico punto di contatto tra soggetto e mondo. Un mondo caratterizzato dalla ‘medietà’, un mondo aperto all’incandescenza del presente e pure teso a questioni ‘universali’, concernenti quel continuo processo di ricerca di ‘senso’, di equilibrio e di generale riconoscibilità atto a legare: la modernità di una forma – ambivalente, tragicomica, grottesca – e la complessità di un sistema generale ininterrotto e fluente fatto di parti diverse che non tendono, evidentemente, a ridurre la complessità, ad annullare i conflitti quanto piuttosto ad assimilarli, sino a nutrirsene. Un sistema urbano teso, dunque, verso una compiutezza che non arriva mai e che spesso si trasforma in dissoluzione. Una dimensione del reale in cui non ci si può più perdere perché i luoghi vengono divorati dall’ordine che avanza sempre più diffusamente, che non concede alcun compromesso e che riduce l’ambiente a un teatro di ombre private, spazi costruiti e non che non ci appartengono e a cui non apparteniamo. Dove si cela, allora, l’occasione di quel perdersi che fa ritrovare ‘ragione spaziale’, identità, o meglio ‘verità’ di luogo? Forse, proprio nell’estrema negazione di significato ci si scopre liberi dalle camicie di forza dei luoghi e dalla pretesa che questi possano avere ‘forma’ definita e definibile. La sensazione è, dunque, di non essere in ‘nessun luogo’ e, conseguentemente, di non essere in ‘alcuno spazio sociale’. Ma è sufficiente? È ancora possibile rifugiarsi in mappe che, in realtà “[…]mentono sempre, i veri posti non ci sono mai” come scriveva Herman Melville in Moby Dick?

In effetti, accettare e ‘confermare’ il perpetuo accatastarsi arbitrario di parti diverse sembra essere la più attendibile chiave di lettura di questo mondo, il mondo contemporaneo, nel quale, per l’appunto, si accendono e si spengono le luci di tante realtà che come tanti schermi inquadrano storie differenti fra loro e tutte simili ad altre già note. Le forme dell’architettura si confondono, quindi, con le immagini prodotte per i fini più diversi, immagini di ciò che può essere comprato o venduto in un grande e variopinto mercato delle merci. Non esiste una ‘guida’, un dizionario ma una possibilità infinita che solo a tratti può far intuire l’anima profonda di ciascun luogo così da perpetuare il processo di paesaggio con rinnovata, ma, pur sempre, coerente e continua esperienza etico-estetica. Ebbene, ma allora è l’accadere a dare il ‘senso primo’ ai nostri territori e al loro svilupparsi e continuo trasformarsi che va caratterizzandoli e definendoli nella loro struttura e identità sociale e spaziale. Luoghi che trovano ragione nelle forme, nelle parti, nelle relazioni di cui si compongono e che, di fatto, identificano un’immagine univoca, fatta di realtà presenti e passate, vicine e lontane, comuni e particolari, di atmosfere ordinarie e straordinarie… in ogni caso ‘risolte’ in una sola, semplice unità. Gli eventi dei secoli passati, del resto, hanno plasmato l’identità di luogo, la struttura e la forma; ne hanno definito la qualità locale in un motto perpetuo che ne ha contraddistinto prati e boschi, pianura e rilievi, fiumi e laghi… così da identificarli nella loro specificità, nella loro peculiarità, nella loro essenza e che, conservando la propria singolarità si riconoscono quali parti di una totalità, di un insieme dalle trame molteplici, rivelabili in un osservazione sensibile di spazio.

In definitiva, si potrebbe dire che ogni paesaggio, ogni realtà costruita e non, si fa costellazione di quel ‘visibile’ che, nell’istante della trasformazione, permette di riconoscere, intuire il suo piano demiurgico animato da più ‘frammenti’ che, di fatto, lo possono condurre (come, secondo altra accezione, spiegava anche Sofocle nella parte finale del coro della tragedia ‘Antigone’) verso il razionale o l’irrazionale, verso il legittimo o l’illegittimo,verso la condivisione o la condanna. Una questione, dunque, di scelte suggerite dall’inventiva del fare compositivo che dovrebbe, di fatti, avere, come primo fine, la messa in scena della ‘ragione’ per la quale ogni ‘cosa’ viene fatta, e dare quindi risposta ‘appropriata’ a un bisogno, a una pratica, a una funzione presente… Il fare e pensare compositivo non vuole, dunque, recuperare, nella complessità fisica del territorio le tracce e i segni di un’immagine, spesso, irrimediabilmente, persa o, eccessivamente, corrotta, quanto piuttosto risolvere, adeguare, strutturare una riconnessione di frammenti da cui è composta. Azione che non può essere fatta con grandi infrastrutture ma nella costruzione di una sottile trama di relazioni, non solo ‘fisiche’, materiche ma anche e soprattutto, nella ‘ri-significazione’ (ri-informazione) di alcuni spazi in modo da restituire identità e carattere a ogni realtà urbana, sociale e ambientale.

Una riconnessione da attuarsi attraverso le logiche di un tempo presente: debole, confuso e pure rifiutando la pretesa di un rigore scientifico a favore di un pensiero ‘fuzzy’, un pensiero ‘sfocato’ ovvero una logica polivalente, una logica in cui si può attribuire a ciascuna ‘proposizione’ un grado di verità. Albert Einstein scriveva in Sidelights on Relativity: “Finché le leggi della matematica si riferiscono alla realtà, non sono certe, e finché sono certe, non si riferiscono alla realtà.”

Per cui, la purezza della geometria e la precisione dei percorsi matematici non rappresentano più la realtà contemporanea che si mostra, di fatti, in uno stato intermedio,‘lanuginoso’, indistinto, conteso tra ‘materia e senso’, tra costruito e ‘ragione’.

In definitiva, si perde la leggibilità di luogo, il suo essere racconto storico, il suo essere insieme di parti semplici e complesse, al contempo iscritte in uno stessa dimensione territoriale. È altresì vero che la trasformazione fisica e culturale, nel tempo, trasforma l’essenza della città, del suo paesaggio, sempre più, messo in discussione dal movimento di globalizzazione. In effetti, quando si viaggia, quando si visitano le tante realtà di mondo si scopre una crescente alienazione dei caratteri millenari, dei caratteri peculiari di ciascuna terra nella quale si riconosce, al contrario, una progressiva omogeneizzazione culturale, sociale e spaziale. Ciò nonostante, non è la ripetizione, la ricerca di similitudini a destare interesse e fascino bensì la particolarità e la singolarità. Lo stesso Marco Polo, voce narrante delle Città Invisibili di Italo Calvino, raccontava di una prima ricerca di uniformità, riconoscibilità di un già noto modello metropolitano. In questo suo peregrinare per terra e per mare, tuttavia erano proprio le differenze, le peculiarità che andavano, man mano, perdendosi in un ‘pulviscolo’ uniforme, a destare l’interesse e fascino del mercante veneziano. Insomma, i ‘luoghi’ vengono a noi da lontano. La loro identità affonda le radici nel tempo e nello spazio che si fa espressione stratigrafica, racconto che precede e sovrasta ogni contemporaneità, rispecchiando l’immagine mobile del reale (come lo stesso Platone spiegava, nella II parte del Timeo, avvisando che la realtà, qualunque essa fosse, proprio perché soggetta al divenire non sarebbe mai giunta a conclusioni certe ma solo probabili).

Alla luce di quanto detto si propone, allora, un’ipotetica strategia progettuale riguardante questioni di rigenerazione, recupero, riuso del sistema urbano in genere. Una strategia che dall’immaginazione spinge a prolungarsi in azione intessendo un rapporto diretto nel processo compositivo atto a innescare un campo di energie che nel gioco delle relazioni genera, nel tempo, gli spazi necessari. Pur tuttavia, oggi, è vero che alcune ‘questioni’ si rivelano del tutto desuete. Pertanto, si cerca, con un motto fuori tempo, di afferrare l’inattuale per aprire il quotidiano al futuro che ancora non vediamo né capiamo ma che ‘pianifichiamo’ in altro modo, con altre ‘forme’, con altre, inconsuete, innovative relazioni urbane e territoriali. Si potrebbe dire, un riappropriarsi ‘silenzioso’ dell’esistente, ora, reinventato in ‘forme’ diversa con, più o meno, piccoli, significativi ma dirompenti slittamenti di ‘senso’.

In definitiva, si auspica una costruzione elementare di realtà abbandonate o degradate in modo da soddisfare altri, più attuali bisogni e sollevare dubbi sulle relazioni, apparentemente consolidate ma, in vero, vecchie e obsolete, bisognose di correzioni, di un pensiero progettuale senza proclami o grida che in sole poche mosse possa conquistare, consapevolmente, un ‘senso’, un ‘utilizzo’ moderno, generato, pur sempre, nel passato e, ora, recuperato, ritrovato, reinterpretato.

Ogni occasione di progetto lascia, quindi, intravvedere un’altra prospettiva, una possibilità non ancora messa in conto e che trova la sua forza proprio nel tratteggiare relazioni altre, nel dare risposta specifica a bisogni e usi moderni, nel riscatto e reinterpretazione di frammenti di ‘luogo’ dispersi dentro più o meno ‘sonnacchiosi’ ambienti urbani e territoriali, ambienti non ancora ‘visti’ o ‘trovati’. Non si vuole, certo, proporre un fare e pensare quale cura, palingenesi, purificazione e neppure quale elemento di ricostruzione ‘passiva’ bensì una prospettiva per una ‘spazialità’ disillusa, concreta, fatta di storie e di frammenti ricuciti dal movimento stesso del progetto e ben lontani da quel fare rinchiuso, spesso, in un irritante e sterile individualismo.

Il pensiero compositivo che si va approssimando compie, allora, un salto nel vuoto, un azzardo, senza alcuna deduzione diretta né elaborazione scontata o risposta consolatoria. Una composizione che, al contrario, si propone di riordinare il ‘frammento’ in una forma tanto utile al presente quanto imprevista, riconoscibile nella scena contemporanea, attiva e reattiva della città. In altre parole significa trasformare in programma una condizione obbligata, riconsiderando gli strumenti e i modi di operare e quindi inventare nuove possibilità dentro la densità del già costruito e storicizzato, dentro la città consolidata e anche dentro il sistema allargato. Ebbene, si fa allora interessante un salto di scala, quel sottile trauma che annoda oggetti e contesti diversi e, in questo modo, conquistare un nuovo ‘senso’, altra ‘ragione’ nei rapporti disturbati o incompresi e, ora, reinterpretati, reinventati, commisurati all’attuale sistema. Un fare progettuale attento, quindi, a ricostruire un orizzonte da dove poter fissare un carosello di realtà diverse dall’ossatura forte, dal carattere specifico, individuate da piccole differenze e che raggiungono il loro ‘grado zero’ nella semplice costruzione di un particolare punto di vista. In definitiva un fare progettuale che interpreta uno ‘stare tra’ come vocazione di una cultura interstiziale fondata sulla relazione, sui rapporti come si trattasse di una sinfonia in grado di ricomporre le differenze e i contrasti in un territorio, per l’appunto, inteso: superficie disegnata da segni e parole, significati e banalità sempre uguali e sempre diverse. Si potrebbe dire che la nostra città, nel suo farsi e rinnovarsi continuo, è un po’ come l’erpice kafkiano che incide sulla pelle le pene inflitte al condannato. Un modo insolito, dunque, di guardare la scena urbana fatta di contraddizioni aperte e dolorose ma, pur sempre, costituenti preziosi elementi da leggere e utilizzare come indizi e tracce; tracce da cui partire per disegnare, ipotizzare il prossimo futuro. Insomma, si auspica di fuggire dalla trappola di immagini false, illusorie, di architetture ‘silenti’, auto celebrative, sempre uguali a loro stesse, atte solo a sorprendere e stupire, e cercare, invece, realtà libere sia da ‘desideri pubblicitari’, sia dalla nostalgia di un tempo passato e pure dall’abuso della storia pensata solo come obbligatoria, risolutiva, salvifica. Si valuta, quindi, il territorio per quello che è, osservando senza selezionare, senza escludere, senza nascondere il ‘brutto’ e provare in questo modo a ‘misurare’ lo spazio in realtà ‘abbandonate’, in reinterpretazioni moderne, in recuperi debiti e dovuti… così da scoprire lo spazio dove continuare a scrivere, immaginare e re-inventare il futuro della città e del territorio.

Basta, allora, con le false parole, con immagini seducenti e ingannevoli che, spesso, irretiscono sguardi e obnubilato le menti, basta con una cultura visiva che annulla ogni complessità e peculiarità nonostante la ‘forza di paesaggio’ si nasconda proprio nello spazio impossibile che tiene insieme, in modo paradossale, cose che nessuno mai immaginerebbe vicine o che, fino a ora, non sono state prese in considerazione. Se, di fatti, si osserva, per esempio, la struttura urbana della città di Milano essa assume, in genere, un aspetto roccioso con un problema riguardante la conservazione fisica, la materiale sopravvivenza e l’inevitabile rigenerazione dei manufatti di cui si compone. L’architettura si fa porosa: costruzione e azione si compenetrano in realtà molteplici nelle quali, sovente, si mantiene anche dello ‘spazio vuoto’, abbandonato, ‘indefinito’ disposto a essere, in un prossimo futuro, teatro di nuove, impreviste circostanze. D’altra parte nessuna ‘parte’ appare come è, come è sempre stata; nessuna forma dichiara il suo ‘così e non diversamente’ e l’architettura si fa, conseguentemente, sintesi della ritmica comunitaria: privata, ordinata, anarchica, intrecciata, nella quale nulla viene più finito e concluso e dove la porosità si fa legge, si fa ragione e senso comune. In definitiva, nella città in demolizione o in ricostruzione il pensiero progettuale combatte il proliferare di spazi qualsiasi, terreni incolti o strutture abbandonate per proporre una dimensione chiara, riconoscibile e assolutamente necessaria alla città di oggi che, tra l’altro, chiede, a gran voce, un piano progettuale sostenibile, attento al risparmio e al recupero energetico e pure al nuovo modo di vivere la città, a una nuova urbanità, a un diverso modo di pensare la casa (temporaneo, minimo, trasformabile…).

Ecco perché gli spazi costruiti e non, attivi o passivi, nella scena urbana non sono altro che il negativo delle città costruita, aree interstiziali o in via di trasformazione, edifici abbandonati o non ‘finiti’… realtà che danno forma a una nuova e del tutto insolita zona del mondo, uno spazio come eterotopia (nell’accezione avanzata da Michel Foucault) ovvero un luogo off, sospeso, irrisolto, un luogo della nostalgia e della presenza e persino un luogo ‘conteso’, di continuo negoziato tra una condizione di margine e una condizione futura di identità multipla. Per questo è di estremo interesse scandagliare le fratture, le realtà abbandonate, non viste che a ogni istante si producono nel metabolico sistema urbano e indagare, quindi, le straordinarie energie che si sprigionano, intravvedendo in certe ombre gli embrionali inauditi modelli da lasciar perire o coltivare, e leggere, poi, nelle assenze il futuro pieno delle presenze.

A ogni modo, è importante ricordare che nel pensiero progettuale non si cerca, a mio avviso, la migliore soluzione bensì le migliori interazioni possibili, la dimensione urbana intesa, allora, come un grande vivente, fatta di regole e corrispondenze, un ecosistema eterotrofo al pari di tanti altri presenti in natura con alcune singolari caratteristiche, norme e corrispondenze più o meno note, più o meno chiare. Si parla, allora, di processo e non di piano, si elabora una forma aperta e non volumetrie astratte, si guardano alle superfici e non alle forme in se. Una commistione di esperienze che, di fatto, spezzano la fissità di una scena per ‘inaugurare’, invece, diverse prospettive e logiche compositive e dove il progetto nasce a partire dal luogo, in quello specifico spazio, in quella condizione di margine, di realtà ‘sospesa’, correlato a un presente insoluto e un futuro potenziale, e li, solo li si trova risposta ‘architettonica’, alla sua più ragionevole, moderna attuazione. D’altra parte non è forse vero che ogni comprensione, ogni intuizione di verità nasce proprio dallo stato di fatto, dal luogo, dal guardare e interpretare con consapevolezza e obiettività lo spazio nella sua forma e identità particolare. Di fatti, se più che della logica di un mondo funzionale, specialistico, del tutto asettico e controllato, ci si cura del ‘senso’, ossia della realtà nel suo accadere, si sosterrebbe un fare e pensare progettuale attento al recupero, all’orchestrazione di parti più o meno coerenti, più o meno affini; si avvalorerebbero i rapporti diretti e quelli indiretti, potenziali e impliciti scoprendo, ogni volta, la ‘ragione’, la ‘funzione’, la ‘reinterpretazione’ necessaria alla città moderna.

Una ricerca critica, dunque, un’attenzione progettuale rivolta allo stato di fatto, alla richiesta, all’occorrenza presente… e fuggire da tutto ciò che alimenta, inesorabilmente, il nostro tempo. Un tempo superficiale, attento solo a stupire, stravolgere, ‘auto-celebrare’… un tempo fugace, fatto di immagini effimere, di incontri potenziali…nei quali si corre il rischio di cadere, allontanando da quel quotidiano vivere la normalità, la concretezza, la banalità, la bellezza del vernacolare, del non ancora visto o non ancora trovato, ritrovato e che la città, oggi, chiede a gran voce.

Importante è anche compiere un’analisi attenta e precisa in merito a tematiche ambientali, alle nozioni di sostenibilità, compatibilità, impatto ambientale, oggi, sempre più diffuse in plurime, varie materie e ambiti disciplinari. Tematiche che introducono un punto di vista altro, nuovo, dalla parte del paesaggio, quasi si potesse osservare il ‘mondo’ con gli occhi dell’ambiente.

Senza dubbio alcuno, infatti, nel cercare un compromesso fra struttura insediativa e territorio, l’idea prima di rispetto ambientale si fa paradigma progettuale. Il patrimonio ambientale è, di fatti, un insieme di beni che a loro volta sono insiemi d’idee, di valori, di strategie sociali e politiche la cui partecipazione è, tra l’altro, assolutamente fondamentale nel presente scenario, in costante metamorfosi, dal momento che stabiliscono, ordinano nessi fra luoghi, fasi e tempi, facendosi parti attive nelle trasformazioni urbane e misurando una distanza, lontana da accenti nostalgici o di carattere estetico, per chiarire, invece, il possibile ‘sfruttamento’ e l’identità propria di ciascun ambiente.

Si sta compiendo, allora, una trasformazione dei modi di apprezzare le ‘bellezze’ della natura; avanza, inesorabile, una sostanziale metamorfosi, una vera e propria espansione del dominio estetico con l’acquisizione e comprensione, nel sistema di progetto, di altri sorprendenti spazi territoriali tipici del ‘pluralismo’ urbano e territoriale. Luoghi che sino a ora sono stati visti solo quali fratture povere e desolanti. In ragione di ciò, si propone un nuovo modo di ‘vivere’ il moderno scenario urbanizzato e infrastrutturato, un fare progettuale attento a favorire uno sviluppo territoriale colonizzato dalla diffusione del pensiero sostenibile. Tra l’altro, si fa sempre più evidente l’aspirazione a interpretare, progettualmente, anche il sistema naturale rendendolo, di conseguenza, ‘soprannaturale’, un po’ come era la realtà descritta nelle Affinità elettive di Goethe o in Dominio d’Arnheim di Edgar Allan Poe nella quale, infatti, si rivelava il piacere superbo di forzare la natura rendendola straordinaria, inconsueta, ‘addomesticata e controllata’…

14 ottobre 2015