L’ultima resistenza (2)

pasolini
Ovvero la lotta degli anziani contro i giovani 

di Marco Biraghi

In numerose circostanze, negli articoli e nei testi scritti negli ultimi due o tre anni della sua vita, raccolti negli Scritti corsari e nelle Lettere luterane, Pasolini parla di una «mutazione» o di una «rivoluzione antropologica»: si tratta degli effetti prodotti dal processo di modernizzazione conosciuto dall’Italia nel corso di quel quindicennio (ma perché questa avvenisse probabilmente è occorso molto meno); un processo di repentina trasformazione della società contadina e paleoindustriale in essa dominante per secoli in una società dei consumi. Sottoposti al fuoco incrociato dell’economia capitalista, delle istituzioni sociali, della scuola, della stampa e soprattutto della televisione, e con la connivenza del potere politico e della Chiesa, gli italiani hanno così appreso a tappe forzate i rudimenti della “cultura di massa”, basata su un’accettazione totale della “civiltà” dei consumi, a sua volta fondata sull’idea di una borghesizzazione del mondo, e conseguentemente su un conformismo dei comportamenti.

Se gli effetti di tale «mutazione antropologica» sono avvertibili nell’intera società italiana (benché non solo in questa, ovviamente), e dunque indifferentemente in coloro che appoggiano o abbracciano con entusiasmo il nuovo «potere dei consumi» e in coloro che invece cercano o s’illudono di contrastarlo, è tuttavia nei più giovani – nelle persone nate in coincidenza con l’inizio di tale “rivoluzione” e, con tutta evidenza, in quelle nate dopo di essa – che i segni della mutazione si lasciano rintracciare. Scrive Pasolini in I giovani infelici, risalente ai «primi giorni del ’75»: «I figli che ci circondano, specialmente i più giovani, gli adolescenti, sono quasi tutti dei mostri. Il loro aspetto fisico è quasi terrorizzante, e quando non terrorizzante, è fastidiosamente infelice. Orribili pelami, capigliature caricaturali, carnagioni pallide, occhi spenti. Sono maschere di qualche iniziazione barbarica, squallidamente barbarica. Oppure, sono maschere di una integrazione diligente e incosciente, che non fa pietà». Due sintomi tra di loro opposti (contestazione e integrazione) che hanno però alle spalle un’unica patologia: la totale assoggettazione alla massificazione sociale dettata – in un modo o nell’altro – dalla cultura borghese.

«Specialmente i più giovani, gli adolescenti». Quanto più integralmente i corpi e gli spiriti si sono formati a contatto, sotto la diretta influenza, di quella “civiltà mutante” – par di capire -, e tanto maggiori e più devastanti sono risultati gli effetti della mutazione genetica che ne è derivata. Per questa ragione, le generazioni precedenti a quella della fine degli anni cinquanta e dell’inizio degli anni sessanta, come in conseguenza dell’esposizione a una radiazione i cui effetti sono tanto più gravi quanto minore è la distanza dalla fonte irradiante, hanno subìto danni di più lieve entità: meno di tutti le generazioni più anziane, già più consistenti la generazione dei cinquantenni, nati negli anni venti (cui appartiene Pasolini), e poi via via in misura sempre crescente quanto più ci si avvicina all’epicentro dell'”esplosione” della civiltà dei consumi.

Ma è soltanto nei «più giovani», negli «adolescenti», appunto, che gli effetti delle mutazioni arrivano ad essere sconvolgenti. Nei quindicenni o poco più (oltre che nei ragazzi ancora più giovani) assumono contorni addirittura raccappriccianti, agli occhi di Pasolini: e ciò sia nella forma della quieta acquiescenza alle convenzioni sociali, sia nella forma della stereotipata ribellione.

Lo sguardo di Pasolini è lucido ma non per questo impietoso nei loro confronti. È vero che sulla generazione dei “figli” egli emette un giudizio di condanna duro, severo, sulla scorta dell’arcano e in apparenza «ciecamente irrazionale e crudele» “meccanismo” che nell’antica Grecia vedeva i figli destinati a pagare le colpe dei padri; meccanismo in cui egli identifica non un’evocazione puramente “mitica”, bensì un principio realmente agente e determinante. La generazione dei figli è quindi destinata a pagare in concreto le colpe della generazione dei padri, se non è in grado di liberarsi di queste: e infatti, per dirlo con le parole di Pasolini, «i figli che non si liberano delle colpe dei padri sono infelici». Giacché, se «l’eredità paterna negativa li può giustificare per una metà, […] dell’altra metà sono responsabili loro stessi».

Se è vero pertanto che per Pasolini i “figli” sono colpevoli e che la loro punizione è non soltanto dimostrata ma direttamente incarnata dalla loro stessa infelicità, «dal loro modo di essere», è vero però al tempo stesso che egli non nutre alcuna ostilità preconcetta verso di loro (come pure potrebbe lasciar intendere la sua accettazione del principio greco dell’ereditarietà della colpa): non «odio», è il suo, bensì «cessazione di amore».

A questo amore “cessato”, e dunque “mancato”, non corrisponde tuttavia una completa “disperazione” nei confronti della generazione dei giovani, quale invece ci si potrebbe aspettare. Innanzitutto, per Pasolini esistono eccezioni tra i giovani: «sono quasi tutti dei mostri», scrive. Tra le eccezioni, egli pone i «giovani iscritti al Pci», dimostrando non si sa bene se rispetto, o cautela, oppure una vera convinzione ideologica. E tra le eccezioni, naturalmente, vi è Gennariello: «Se non sei un miracolo, sei un’eccezione, questo sì. Magari anche per Napoli, dove tanti tuoi coetanei sono schifosi fascisti». Inoltre, il fatto stesso di risolversi a scrivere un «trattatello pedagogico», in un’epoca in cui ciò non può risultare che del tutto inattuale, se non addirittura caricaturale («non mi sembra che ci sia nessuno – almeno nel mio mondo, cioè nel mondo della cosiddetta cultura – che sappia minimamente apprezzare l’idea di compilare un trattato pedagogico per un ragazzo»), attesta la sussistenza della sia pur minima dose di fiducia da parte di Pasolini nella possibilità di dare un’educazione diversa – o meglio piuttosto, di dare una diversa lettura di questioni e di figure ben note – a una generazione, o quantomeno, ai rappresentanti migliori di essa.

Se sottolineo questa cauta apertura di Pasolini non è certo per ansia di riscatto della mia generazione, né tantomeno di riscatto mio personale. Il problema non è se egli la consideri o meno “salvabile”, né se sussista l’eventualità che al suo interno io o qualche altro mio simile abbia potuto “salvarsi”. Se ho dato rilievo a questo aspetto del discorso di Pasolini è soltanto per dimostrare – attraverso di esso – l’equanimità della sua posizione, l’assenza di alcun pregiudizio (nonostante le molte apparenze contrarie) nei confronti della generazione dei “figli”. Pasolini non è “contro i giovani”. Analizza non già una vaga “dinamica” (o se si preferisce “meccanica”) generazionale, quanto piuttosto un ben preciso episodio, posizionato e circoscritto nello spazio e nel tempo; qualcosa di storicamente determinato e di altrettanto storicamente “spiegabile”, a patto naturalmente di avere la capacità, la lucidità e il coraggio per farlo. Qualcosa che concerne de facto i rapporti tra generazioni diverse – uno “scontro” generazionale obiettivamente senza precedenti, che Pasolini penetra nelle sue ragioni profonde, senza paura di affermare cose scomode o provocatorie.

(continua…)

10.12.09

L’ultima resistenza (1)
L’ultima resistenza (3)
L’ultima resistenza (4)

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