Intervista di Antonio Laruffa ad Andrea Branzi
Milano, Novembre 2016
A.L. Diversamente da quel che disse Paolo Portoghesi quando vide disegnare Aldo Rossi, dico che «dal nulla che ero mi facesti dono d’essere uno che ti ascoltava» (De Libero). Mi ha sempre colpito la forza delle tue parole, soprattutto quelle “parole luminose” che almeno una volta al giorno mi capitava di ascoltare in tua presenza, parole che mettevano in crisi e permettevano di far luce sull’ignoto. Quando mi è stato chiesto di farti un intervista, ho pensato ad un tuo progetto ancora non finito, al quale ho lavorato e che per il momento continui a chiamare “arazzi”, tra questi ho pensato all’arazzo dei poeti maledetti e «dico che bisogna essere un veggente».
Tu sei classe 1938, sei arrivato sempre prima degli altri su tutto, ci sei sempre stato ed hai tracciato il cammino.
Nel 1968, con la serie di disegni Strutture in liquefazione, dai inizio alla ricerca teorica sulla dissoluzione dell’oggetto; nel 1969, con la serie di fotomontaggi Discorso per immagini, questa ricerca passa attraverso la dissoluzione dell’architettura e raggiunge la sua esaltazione massima con la dissoluzione della città nella No-Stop City, andando a definire la scoperta della ruota della modernità in architettura. Qual è il rapporto tra dissoluzione dell’architettura e architettura non figurativa?
A.B. La No-Stop City ha origine da diverse fonti: la prima deriva dalla semplice costatazione che l’architettura moderna non tiene ancora conto che il microclima e l’illuminazione artificiale permettono di realizzare grandi contenitori catatonici, privi di finestre e aperture; le grandi fabbriche e i supermercati, dove il Capitale esprime tutta la sua potenzialità territoriale, potrebbero estendersi a tutta la città. Abitare all’interno di uno spazio illimitato come un supermercato o dentro a una grande fabbrica è il futuro che ci attende. Nei fatti le cose sono andate proprio così: il consumismo di massa, il lavoro diffuso, non corrispondono più alla Carta di Atene (fatta di zoning specializzati), il territorio urbano è esteso come il mercato nell’epoca della globalizzazione.
A.L. La No-Stop City è un fenomeno politico fisico che consente di definire la città tramite un indice di accesso, uno standard: “un ascensore ogni 100 mq”; nel 2007, in Scritti presocratici, la legge genetica della città cambia e diventa «un computer ogni 20 mq», un fenomeno politico immateriale che permette di vivere, lavorare, produrre senza che vi sia prossimità fisica, senza dover occupare il medesimo spazio e senza dover utilizzare il medesimo tempo; è possibile parlare di un’anti-architettura o di un’architettura immateriale?
A.B. Si può anche non parlare più di architettura dal momento che essa è diventata estranea alla qualità della nostra vita. La qualità di un luogo urbano è costituito dalla qualità dei negozi, delle persone che si incontrano, dai prodotti che si possono compare, dei servizi delle infrastrutture. Della città noi percepiamo soltanto i basements, il resto è un volume non memorizzabile.
A.L. Quali sono le possibilità di un’architettura immateriale?
A.B. L’architettura è già oggi una realtà immateriale che non coincide più con le tipologie funzionali: si fanno uffici nelle abitazioni, si abita e si espone nei magazzini (loft), si fanno banche nelle chiese. L’architettura è diventata un insieme di “funzionoidi”, simili ai computer che non hanno una funzione ma tute le funzioni, secondo le necessità dell’utente.
A.L. Nel 1992, realizzi Cattedrale Sensoriale, un modello teorico di architettura percettiva per la mostra “Citizen Office” al Vitra Design Museum Weil am Rhein; se la No-Stop City è un’ipotesi di linguaggio architettonico non figurativo, la Cattedrale Sensoriale è un’ipotesi di linguaggio architettonico sensoriale?
A.B. L’uomo memorizza gli odori, i sapori, i colori, ma non memorizza il percorso della metropolitana. Durante il grande terremoto di Tokyo, furono chiuse le metropolitane; nessuno sapeva quale era il percorso per tornare a piedi a casa.
A.L. Due anni dopo, nel 1994, Jean-François Lyotard scrive: «la metropoli non ha più un fuori. E di conseguenza è priva di un dentro» («Millepiani» n. 2, 1994) in virtù di questa uniformità, la propagazione selvaggia della metropoli contemporanea non ha implicazioni politiche quanto piuttosto estetiche: l’individuo della metropoli è molto più sensibile alla stimolazione della percezione sensoriale più di quanto non lo sia alle istanze giuridiche; la metropoli sensoriale del trionfo dell’estetica ha chiuso il ciclo novecentesco della città politica?
A.B. Le città nella storia dell’uomo, non hanno mai funzionato; non esistono due città uguali, due case uguali. Il progetto non è una scienza esatta, risolve più o meno brillantemente problemi inventati dal progettista.
A.L. Nel 2014, con La Metropoli primitiva dai inizio alle ricerche teoriche per una nuova “drammaturgia del progetto”, dove le grandi tematiche antropologiche come la vita, la morte, l’eros, la metafisica, l’angoscia di vivere sono compresenze di una modernità dove il passato, il presente e il futuro non sono conflittuali, ma interscambiabili. Qual è il rapporto tra metropoli sensoriale e metropoli primitiva?
A.B. Come nell’Amazzonia gli odori, i colori, i suoni costituiscono uno spazio integrato, dove convivono i sogni, il culto dei morti e delle divinità. Ugualmente l’uomo vive nello spazio metropolitano dove convivono tecnologie, grandi narrazioni, miti, messaggi, servizi; sia l’indios che l’uomo metropolitano sono come pesci nel mare, che non vedono mai il mare dall’esterno; non vedono mai l’orizzonte.
A.L. Nel 2016, con Kenya Hara, curi la mostra Neo Preistoria alla XXI Triennale di Milano, dove, tramite 100 verbi e 100 strumenti, descrivi questo secolo inesplorato come una nuova preistoria, dove l’uomo non ha una direzione precisa e gli oggetti possiedono nuovi significati. Qual è il rapporto tra dissoluzione dell’oggetto delle Strutture in liquefazione e ridefinizione dell’oggetto della Neo Preistoria?
A.B. Lo spazio dell’uomo primitivo era uno spazio privo di orizzonte; non aveva “esterno”. Noi non siamo mai usciti dalla “preistoria”, perché anche noi non vediamo dove ci condurrà il mondo attuale, privo di orizzonte. Il “futuro” è ancora immerso nelle tenebre.