La grande schifezza
a Valerio Magrelli, confratello in esasperazione
Fino a poco tempo fa, a ogni risuonare del sintagma «la grande bellezza» (Drone a perpendicolo sulla spirale di Sant’Ivo alla Sapienza? La grande bellezza. Dal basso del selciato a piazza San Pietro, con dolly repentino verso l’Alto? La grande bellezza. Dall’elicottero prima sopra Ponte Sisto, poi sotto (?) ponte Sisto? La grande bellezza. Ma ancora e ancora: Petite robe noire su spalle tornite da anni di palestra dorata al Parcheggio Borghese? La grande bellezza. Manicaretto di chef stellato con reazione di Maillard e conto in proporzione? La grande bellezza. Rovescio a una mano di Lorenzo Musetti al Foro Italico? La grande bellezza), pavloviano entro-ruggivo. Poi me ne sono fatto una ragione. In fondo è giusto così: è solo quando quella particolare bellezza è diventata un ricordo, cioè quando se n’è fatto uno stereotipo over-turistico, un’esca orientalista per allocchi globalizzati, insomma un posticcio autentico e dunque sommamente ingannevole, che può diventarne brand mondiale un film che, pretendendo di celebrare la bellezza, rispetto alla bellezza autentica si colloca più o meno agli antipodi. Già a Joyce, del resto, questa città pareva abitata da gente che si mantiene mostrando ai turisti il cadavere della nonna.
Il risentimento di chi ne paga le fluenti imposte senza mai neppure ipotizzare di fruirne gli ipotetici servizi – per la Città Santa, la Città Capitale, la Città della Bellezza insomma – è ormai vicino alla furia omicida (per fortuna disarmata). È il risentimento del Calibano di Rimbaud, Mauvais sang: tantalicamente incatenato all’oggetto del desiderio che per sempre gli viene negato. Ma, dice l’amico di Milano ogni volta che scende qui da noi (cioè a Fontanella Borghese, cioè a San Saba, cioè al Pincio), «è tanto bella». Sì, caro: vieni da me a Tor de’ Schiavi, a Tor Sapienza, a Tor Tre Teste, a Tor Bella Monaca, a Tor Pagnotta, a Torre Spaccata – e poi ne riparliamo. (Giusto ieri il Sindaco, constatate le polveri sottili al Quadrante di Largo Preneste, raccomandava a noi meteci di non sognarci nemmeno di mettere mano a quei puzzoni dei nostri catorci, e fare invece coscienzioso uso del car sharing, come tutte le brave e bennate persone di Parioli e Prati. Senza neppure informarsi che qui all’ultima Thule, quel servizio, proprio non ci arriva.)
Una volta mi trovo a un ricevimento nientedimeno che a Villa Fersen, a Capri (una di quelle situazioni, cioè, in cui qualunque cosa indossi sai già che ti guarderanno tutti con commiserazione). Si dà un munifico premio agli scrittori russi (russi, già) tradotti in italiano, e io sono in giuria. A tavola con perfetti sconosciuti, come capita in questi casi, mi trovo a chiacchierare con una bionda piacente sulla cinquantina, molto russa appunto, ma fluidoloquente (come spesso i russi istruiti) un italiano degno d’ammirazione, cruschevole e appena deciduo (si capisce che l’hanno imparato sui libretti d’opera dell’Ottocento). La quale educatamente s’informa “di cosa mi occupi”, e donde venga. Dopo averle più o meno risposto, alla bionda s’illuminano gli occhi. Lei, ricambia l’informazione abbassando appena le ciglia bistrate, è titolare di una multinazionale d’idrocarburi. Ah. E ha appena deciso di trasferirsi nella mia città, da Parigi dove stava prima. «Perché è la città più bella del mondo». «Mah, non saprei, ce ne sono tante di belle città – anche nel suo Paese», obietto cauto. E lei, con tono assertivo dal quale il CEO un po’ traspare, «No no, non si discute, è la città più bella del mondo». «Ma mi scusi», interloquisco suadente, «per la precisione dove ha preso casa, lei?». «Ah, una meraviglia, in Via di Ripetta». «E grazie al… Sa che non tutta la città è fatta in quel modo? Sa che dove abito io non c’è un cinema, non c’è una libreria, non c’è un negozio che non sia un carrozziere?» (la bionda spalanca gli occhi) «Sa che l’unico mezzo pubblico lo si attende in media venticinque minuti? che la Nettezza Urbana passa una volta al mese? che i cassonetti dell’immondizia per metà sono sfasciati dal carico, e per l’altra metà li hanno dati alle fiamme? che le panchine le hanno fatte tutte a pezzi? che le cacche di cane sono una glassa uniforme su tutti i marciapiedi? E lo sa che il Decoro Urbano, nei vent’anni che sto lì, non è passato mai neppure una volta? che le radici degli alberelli spelacchiati, a bordovia, si sono ingrossate sino a svellerli, i marciapiedi? che le piantine del sottobosco sono diventate una giunga?» (la bionda un po’ si spaventa, mentre alzo la voce) «E lo sa che per risparmiare il Municipio sospende a scacchiera l’illuminazione pubblica, una settimana sì e l’altra no, fingendo si tratti di guasti? Sa che il Quadrante dove vivo è il primo d’Italia, nelle statistiche dello spaccio e in quelle dell’omicidio? che dei mortammazzati semplici, da noi, non si dà nemmeno più notizia? “Tanto so’ stranieri, finché sammazzano tralloro…”» (dagli altri tavoli cominciano a voltarsi preoccupati) «Sa che l’altra settimana, sotto casa mia, ne hanno accoltellati due? La notizia filtra ormai solo in caso di strage, abbiamo surclassato lo Zen e anche Scampia». A questo punto la bionda mi prende per mano, come si farebbe con un etilista da riabilitare, e mi chiede con un filo di voce: «Ma mio caro, perché mai ha scelto di abitare in un posto simile?». Finalmente mi calmo e sorrido: «E chi le dice che abbia potuto scegliere, signora?».
Nel Cinquantotto passa da queste parti Pasolini, in compagnia d’un fotografo; così per una volta deve mettere da parte i toni maliosi dell’elegia per descrivere, secco e freddo, lo spaesamento dei vecchi borgatari nei nuovi spazi (quelli dove settant’anni dopo, cioè, sono rinchiuso io): i «tuguri» lasciano il posto a «palazzoni nuovi di zecca, appena costruiti tra distese di sterri, prati abbandonati e immondezzai», e i dannati della terra vengono sospinti nella nuova geenna: «allucinante, il fronte di Centocelle». Secondo lui non è cambiato niente dal regime fascista, che a suo tempo aveva deportato quegli antiestetici poveracci dal centro storico, alla democrazia che i figli di quei poveracci sversa ora in quei «palazzoni, in file identiche, identici tra loro»: identico il «rapporto autoritario e paternalistico» tra «Stato e “poveri”», identica la disperazione che si respira. E per alludere a questa continuità usa un’immagine forte, magari discutibile. Li chiama «campi di concentramento».
A ogni sindacatura si riapre l’eterno dibattito – come guarire la grande malata. Si riuniscono pool, si aprono tavoli, è tutto un bollire di teste d’uovo nei think tanks. Ma da un pezzo mi sono convinto – come concluse in tempi non sospetti Giorgio Manganelli, con «la romanite» del «milanardo» deportato nella Grande Bellezza – che l’unica soluzione è l’eutanasia. Non conoscevo il pezzo che aveva scritto per quell’inchiesta di Saverio Vertone, e mi compiaccio di aver pensato per mio conto quanto alla fine proponeva lui: «la brusca abolizione di Hiroshima diventa una dimostrazione tecnica di quel che si può fare con una grande città». Peccato che in quegli anni Settanta il Manga non avesse ancora notizia, si vede, del perfezionamento del modello che è la Bomba al Neutrone. La quale infatti mi ha sempre affascinato; e ora wikiscopro che giusto in quegli anni Hunter Thompson la indicava a simbolo perfetto del capitalismo compiuto, dal momento che distrugge gli esseri umani ma non le loro proprietà. Qualche anno dopo un vignettista geniale, considerando l’aspetto teratologico di un politicante d’allora, concludeva che alla Bomba N sarebbe sopravvissuto solo lui, in quanto con tutta evidenza più simile a una “cosa” che a una persona (in fondo anche Manganelli poteva contarci, allora, dal momento che si considerava «non antropomorfo»).
Se proprio ci tenete tanto, a Sant’Ivo alla Sapienza e alla Fontana dei Quattro Fiumi, concedeteci almeno questo – di smaterializzarci, una buona volta, in un balsamo di raggi gamma. Così ve la potrete godere finalmente in pace – la grande bellezza.