È sempre bella la città?Cino Zucchi

Lo sharawaggi e il ‘non-so-che’ della nuova città

Quando una città è bella, è più bella di un tempio. Ma anche un bel tempio fu sempre costruito come una città, per un fine che non era il bello. [1]

Alain, Dello Stile

Dalla sua pubblicazione nel 1901, il testo di Charles Mulford Robinson The Improvement of Towns and Cities: Or, the Practical Basis of Civic Aesthetics diventò in breve tempo il breviario del City Beautiful Movement. Ma la simmetria, le proporzioni, gli assi prospettici e la rassicurante sintassi dell’architettura classica fondavano da secoli prima l’idea della “Città come opera d’arte”, titolo/tormentone che rimbalza da Donald J. Olsen (1987) a Cristoph L. Frommel (2002) fino a Marco Romano (2008)[2].

Come per l’ecologia o l’analisi urbana, la nascita di ogni nuova disciplina è il segnale più ovvio di come il disastro sia già avvenuto, e di come si cerchi di chiudere la stalla dopo che sono fuggiti i buoi.

Il libro-manuale di Robinson si appella alle collaudate ricette ‘accademiche’ del vecchio continente, ma è già costretto a trattare con malcelato imbarazzo la distesa senza fine degli slums o manufatti selvaggi e irriducibili come i tralicci elettrici o i cartelloni pubblicitari (a New York nel 1911 esistevano 380.000 metri quadri di billboards). 

A cavallo della sua pubblicazione, la crescita esponenziale che aveva dilatato la città ‘bonsai’ ideata da Burnham per la Columbian Exposition del 1893 fino alla scala territoriale del Chicago Plan del 1909 rivela senza pietà la ‘morte per annegamento nello sprawl’ dell’ideale neoclassico che il nuovo continente aveva rubato all’École des Beaux-Arts.

È ancora bella la città? La formulazione classica della nozione di ‘bellezza’– quello che Wladyslaw Tatarkiewicz chiamava la “Grande Teoria dell’estetica europea”[3] – da sempre coincide con quelle di proporzione, armonia e canone. Ma con il passaggio dalla scala della città a quella della metropoli, il ‘bello’ sembra irrimediabilmente dividersi e polarizzarsi in due direzioni opposte: nel ‘sublime’ e nel gigantismo della scala territoriale e nel ‘pittoresco’ piccino del suo centro antico. 

Dunque non è affare da poco disegnare la pianta di una città in modo che la magnificenza dell’insieme sia suddivisa in una infinità di bellezze di dettaglio, tutte differenti; (…) che vi sia ordine, e tuttavia una sorta di confusione; (…) che infine una pluralità di parti regolari diano luogo, nel complesso, ad una certa idea di irregolarità e di caos, che tanto si addice alle grandi città. (…) Nessuna città più di Parigi offre all’immaginazione di un artista d’ingegno un campo d’azione così bello. Èun’immensa foresta, con variazioni topografiche che alternano la pianura alla montagna, solcata nel mezzo da un grande fiume che, dividendosi in più rami, forma isole di diversa grandezza.

Marc-Antoine Laugier, Saggio sull’Architettura, 1753

La nostra contemplazione attonita della Grosstadt e della sua complessità non più controllabile diventa così sempre più simile a quella di un paesaggio naturale. Questa nuova ‘estetica naturalistica della metropoli’ scorre per lungo tempo sottoterra come un fiume carsico, e poi emerge improvvisamente a travolgere la nitida compostezza delle prospettive della città ideale del Laurana e del National Mall di Washington.

La vertigine sentita nelle grandi città è analoga alla vertigine che si prova in mezzo alla natura. – Delizie del caos e dell’immensità.

Charles Baudelaire, Scritti sull’Arte

Non è un caso che l’urbanistica del secolo scorso, sospesa tra l’‘anatomia’ dei tipi edilizi e la ‘fisiologia’ dei trasporti e delle reti, sia progressivamente invasa da una pletora di metafore naturali – le case come ‘cellule’, le strade come ‘arterie’, il centro come ‘cuore’, i parchi come ‘polmoni verdi’ – inseguendo forse inutilmente la presunta perfezione di un nuovo ‘organismo urbano’.

Paesaggio – questo diventa la città per il flaneur. O più esattamente: la città per lui si scinde nei suoi poli dialettici. Gli si apre come un paesaggio e lo racchiude come una stanza.

Walter Benjamin, Das Passagen-Werk, 1927-1940

Forse non a caso la figura dell’‘albero’ riappare ossessivamente nelle visioni urbane di Bruno Taut, Rudolf Schwarz, Victor Gruen o Gio Ponti, per incagliarsi nella seducente quanto sbagliata proposta di Alison e Peter Smithson del 1957 per la Berlino distrutta dalla guerra, che trasforma il tridente di Friedrichstadt o l’Unter den Linden in autostrade urbane e sovrappone loro un alieno rizoma pedonale fiorito di torri residenziali.

Il metodo arborescente è travolto. L’albero, questo sistema simmetrico e regolato, stabilito su radici, non funziona più come metodo della conoscenza. Indeterminazione, probabilità, caos, sono i concetti su cui si rimodella la fisica subatomica, ma anche i concetti che spiegano il divenire culturale del nostro tempo. (…) Mille Plateaux non ha un centro, ma se un centro vogliamo trovargli, questo sta nel concetto di deterritorializzazione. Mille Plateaux è il libro della deterritorializzazione.

Gille Deleuze e Félix Guattari, Mille plateaux, 1980

Il 1964 vede la pubblicazione di due testi fondamentali: il libro The View from the Road di Kevin Lynch, Donald Appleyard e John R. Myer e il saggio A City is Not a Tree di Cristopher Alexander. Il primo descrive l’estetica soggettiva di un occhio in movimento protetto dall’abitacolo di un’automobile, dove monumenti e grain elevators diventano semplici punti fissi che aiutano ad orientarsi nel fluire dei frames annotati in una notazione stenografica inventata per l’occasione. Nel secondo l’autore, interpretando il concetto di albero – in chiave topologica piuttosto che naturalistica – come sistema di punti e aste che si ramificano in maniera gerarchica, oppone ad esso il ‘semi-lattice’ delle città storiche, dove i nodi sono connessi in forma multipla, ridondante e talvolta inaspettata.

(In Parigi) è all’opera una forma di bellezza propria del grande paesaggio – più precisamente del paesaggio vulcanico. Parigi rappresenta, nell’ordinamento sociale, il corrispettivo di ciò che il Vesuvio rappresenta nella sfera geografica.

Walter Benjamin, in id. Das Passagen-Werk 1927-1940

È ancora bella la città? Chiede spazientito Gizmo.

Sì, è ancora bella se – abbandonate le rassicuranti nostalgie di Marco Romano, schivate le altrettanto populiste teorie della Cities for People di Jan Gehl o le ricotture banalizzate di Jane Jacobs nella ‘Città dei quindici minuti’ – adottiamo una visione e una prassi progettuale che non sezioni e segreghi di nuovo la periferia e il territorio diffuso dai nuclei urbani consolidati. Ma l’estetica urbana ‘classica’ non riesce ad operare questa unione, e condanna irrimediabilmente al ‘brutto’ tutto ciò che non potrebbe comparire in un quadro di Camille Pissarro.

Per questa nuova estetica tollerante, curiosa, aperta, ci potrebbe forse venire in aiuto una parola dalle origini misteriose usata, dimenticata e riscoperta: ‘Sharawaggi’: il primo ad usarla nel 1685 è William Temple in Upon the Gardens of Epicurus, dove egli afferma che si tratta di un vocabolo usato dai Cinesi per descrivere “the beauty of studied irregularity (…) without any Order or Disposition of Parts”. Il termine prende piede nell’Inghilterra dell’Ottocento per definire un’estetica ‘naturale’ nel disegno di giardini ed edifici, donando un tocco esotico ai concetti di ‘artful disorder’ o di ‘careful carelessness’ così cari ai paesaggisti anglosassoni. Caduto in disuso, il concetto di ‘sharawaggi’ è rispolverato nel secolo scorso da Nikolaus Pevsner e Hubert de Croning Hastings, il proprietario e chief editor di “Architectural Review”, che nel 1944 scrive l’articolo ‘Exterior Furnishing or Sharawaggi: The Art of Making Urban Landscape’,gettando le basi di quella teoria di urban design nota anche come ‘visual planning’ o ‘townscape’.

Fare diventare l’architettura superflua, lasciarla sparire dalla nostra coscienza, dirigere l’attenzione verso qualcos’altro: così la città diviene simile alla natura. Non ha bisogno di altre invenzioni. Non può essere espansa. È onnipresente. Non può essere ancora copiata dal momento in cui ha copiato se stessa infinite volte. L‘entropia dell’architettura.

Jacques Herzog e Pierre de Meuron, Manifesto, 1998

Gran parte degli architetti a cui oggi guardo con interesse – tra loro Sergison-Bates, Caruso-St.John, Monadnock, Bovenbouw Architectuur, Barozzi-Veiga e molti altri – hanno da tempo rifiutato le derive commerciali del parametrico internazionale (le sue sciocche strutture fluide tutto possono essere ma non città) per ritrovare un ‘common ground’ quotidiano all’interno dei tessuti minori delle città europee. Parimenti, la rilettura della Parigi haussmanniana operata con intelligenza dai LAN è valida in quanto non nostalgica; come nel lavoro di un entomologo, il loro campionamento del tessuto urbano si pone nel solco interrotto dell’‘analisi urbana’ ma introduce strumenti nuovi, come quello dell’analisi energetica degli immobili. 

La città consolidata piace a tutti, e incominciamo solo adesso a trovare un senso, un codice e una dignità vitale nelle espansioni urbane del secolo scorso. In fondo, molti abitanti della città nuova fanno a meno della ‘bellezza’ degli spazi comuni, ricostruendo attraverso mezzi fisici ed elettronici un piccolo castello privato all’interno della loro magione. Ma se i brani urbani che disegniamo ogni giorno vorranno essere belli, il problema è ancora quello sollevato da A. Trystan Edwards nel suo Good and Bad Manners in Architecture del 1924: “Può un insieme casuale di edifici, ognuno concepito singolarmente, e che esprime nient’altro che la sua funzione immediata, veramente essere descritto come una città? Qual è l’attributo che rende un edificio “urbano”? (…) Perché un edificio sia urbano deve avere urbanità. Ora l’urbanità, come tutti sanno, significa né più né meno che buone maniere, e la sua mancanza attesta piuttosto cattive maniere. Ci sono molte maniere in cui un edificio può mostrare cortesia o maleducazione nei confronti di un altro. (….) Il vero problema è che l’elemento anarchico sta trionfando in tutte le arti. Ci viene detto che l’arte è l’espressione di emozioni. La maggior parte degli edifici o dei quadri più esecrabili sono perdonati sulla base dell’argomento che essi rappresentino con sincerità ciò che l’artista sentiva. (…) La dottrina che un edificio debba proclamare la personalità del suo progettista è stata la causa di molta volgarità in architettura.”[4]

In fondo, la ricostruzione del tessuto a isolati di Friedrichstadt perseguita dall’IBA negli anni ’80 sui principi propugnati dai fratelli Rob e Leon Krier ha dimostrato che un piano urbano non ha bisogno solo di regole morfologiche, ma anche di una ragionevole parentela tra gli edifici, che nella Siena medievale o nella Parigi di Haussmann era garantita da uno misto di pratiche costruttive condivise e di convenzioni formali accettate da tutti.

Berlino è oggi un museo di architettura dove i linguaggi eteronomi di Peter Eisenman, John Heiduk, Aldo Rossi, Rem Koolhaas, Alvaro Siza, Frank Gehry, Renzo Piano, Hans Kollhoff, Giorgio Grassi, Daniel Libeskind e molti altri convivono a fatica sul vassoio comune della città della quale avrebbero dovuto ricostruire le regole. L’ossessione odierna per i termini ‘concept’e ‘iconico’ attesta un’aspettativa estetica contemporanea centrata sulla bizzarria formale dell’edificio che appare poco conciliabile con la ricostruzione di un nuovo lessico urbano; essa è in fondo del tutto congruente al rapporto tra nuovi attori immobiliari e pubblico che preferisce il consenso e l’audience alla sperimentazione e alla ricerca. 

In un concorso per il quartiere Joia Méridia all’interno del nuovo vasto Nice  Écovallée Technopole vinto da un gruppo di progettisti che oltre a Cino Zucchi Architetti comprende Sou Foujimoto, Lambert-Lénack, Laisné-Roussel, Chartier-Dalix, Anouk Matecki, Carta Associates, il paesaggista Alain Faragou e l’artista Carsten Holler, il concetto di ‘aria di famiglia’ è stato la base di un dialogo orizzontale tra diversi progettisti basato su tecniche realizzative comuni e su di un lessico spontaneamente condiviso come speranza di convivenza e bellezza. Solo la fine del cantiere dirà se questo quartiere possa essere considerato ‘bello’, accogliente, ben mantenuto dai nuovi abitanti di una città estesa alla ricerca di uno sfondo amato per le loro vite quotidiane. 

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[1] Alain (Émile-Auguste Chartier), Dello stile, in Pensieri sull’estetica, a cura di Ettore Bonora, Guerini, Milano 1998, p.92

[2] Donald J. Olsen, La città come opera d’arte. Londra, Parigi, Vienna – Serra e Riva, Milano 1987; Christoph Luitpold Frommel, La città come opera d’arte: Bramante e Raffaello (1500-20) in Arnaldo Bruschi (Ed.), Storia dell’architettura italiana: Il primo Cinquecento (pp. 76-131), Electa, Milano 2002; Marco Romano, La città come opera d’arte, Le Vele, Einaudi 2008.

[3] Cfr. Wladyslaw Tatarkiewicz, Storia di sei Idee, Aesthetica Edizioni, Palermo 2011

[4] “Can a casual collection of buildings, each conceived on its own, and expressive of nothing more than its immediate function, truly be described as a city? What is the attribute that renders a building “urban”? […] For a building to be urban, it must be urbane. But as everyone knows, being urbane means nothing more or less than having good manners, and a lack of it if anything is revealing of bad manners. […] The real problem is that the anarchic element is triumphing in all the arts. We are told that art is the expression of emotions. The majority of the most execrable buildings or paintings are forgiven on the basis of the argument that they sincerely represent what the artist was feeling. […] The doctrine that a building should proclaim the personality of its designer has become the cause of much vulgarity in architecture.” A. Trystan Edwards, Good and Bad Manners in Architecture, Alec Tiranti, London 1924