di Marco Biraghi
Sarebbe sin troppo facile, oggi, dimostrare l’affermarsi, pressoché in tutti i campi (e fra di essi, anche in quello dell’architettura) del disordinato, del caotico, del disarmonico. I linguaggi della disarmonia sono i linguaggi della nostra quotidianità: loro segni inequivocabili, la deformazione, la frammentazione, l’eccesso. Facile ma tautologico.
Molto più interessante interrogarsi invece sul persistere più o meno sotterraneo – oggi – dell’armonia, dopo e nonostante la perdita del suo senso originario. Giacché è questo il punto da cui deve necessariamente partire qualsiasi discorso sull’armonia: il riconoscimento, da un lato della sua indispensabilità per tutti gli antichi regimi, all’interno dei quali infatti essa si lascia puntualmente rintracciare, e dove giocava un ruolo decisivo in quanto materializzazione visibile e tangibile di una pacificazione, di un accordo (consensus, lo chiama Vitruvio) assai precario, sempre sul punto di dissolversi – “ordine” costituito di segni linguistici, costruiti o “parlati”, riflesso durevole di un ordine sociale ben più generale; e d’altro lato della sua perfetta gratuità nel mondo moderno-contemporaneo. Progressivamente liberata dal suo compito fondamentale di incarnare e rammentare il consensus tra le diverse partes construentes (dell’edificio, nel caso dell’architettura), l’armonia è divenuta dapprima un caposaldo dell’estetica, e poi via via un semplice “motivo” da utilizzare a piacere, al pari di un optional.
Ma sarebbe indubbiamente un errore sottovalutare il fatto che le architetture del XX secolo pullulano di riferimenti alle proporzioni armoniche classiche, a dispetto del loro inserimento in un contesto moderno (si pensi soltanto a Le Corbusier o a Terragni); e che, accanto all’armonia codificata, “prestabilita”, si vanno ad aggiungere armonie nuove, armonie moderne, più o meno ritmate, o sincopate, o atonali. Non è certo un caso d’altronde che tali diverse costruzioni “armoniche” si avvicinino per vie differenti a un unico “pericoloso” obiettivo, quello della disarmonia. Ma, ancora una volta, non bisogna lasciarsi attrarre da troppo semplificanti univocità: e se è vero che nel mondo contemporaneo la disarmonia conquista sempre nuovi territori, fino a divenire la “tonalità” dominante, è altrettanto vero che anche l’armonia tende per parte sua ad allargare i suoi orizzonti, superando i propri limiti tradizionali.
Ma proprio qui sorgono i problemi: che cos’è l’armonia oggi, se sempre meno si distingue dal suo “opposto”, la disarmonia, il disordine? E inoltre: a cosa serve l’armonia oggi, se non è più un riflesso sociale ma al più individuale ? E in quale misura possono armonie “personali”, “locali”, esercitare un effetto su una collettività che ormai non esiste più in quanto tale, dissolta in una somma di aggregazioni e interessi diversi? A ben guardare, proprio il lento adattarsi dell’armonia a molteplici e differenti contesti, esigenze, “gusti”, linguaggi, indica la resistenza quasi disperata che da più parti si cerca di opporre al completo trionfo del dissonante – ma esclusivamente per dare vita a consonanze soltanto parziali, a “condivisibilità limitata”. Ciò nondimeno l’esistenza di tali armonie problematiche risponde a un bisogno oggi tanto diffuso quanto oscurato da un’ancor più diffusa retorica del caos. Occuparsi di armonie oggi implica intraprendere una pluralità di percorsi analitici che mal sopportano l’adozione di qualsiasi scorciatoia, di qualsiasi schema o modello precostituito, di qualsiasi preconcetto.
Le armonie oggi, per essere comprese, esigono una verifica puntuale, continua, una cura sollecita: proprio perché variabili, proprio perché attraversate da intime contraddizioni, proprio perché problematiche, le armonie oggi meritano di essere singolarmente ascoltate, singolarmente osservate.
19 gennaio 2010